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Caso Cucchi: i medici legali “assolvono” gli infermieri

di Luca Benci

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Il recente deposito delle motivazioni della sentenza sulla vicenda di Stefano Cucchi porta, in questa sede, alla necessità di una serie di riflessioni legate all’assoluzione degli infermieri.
La vicenda processuale, di cui si è appena concluso il primo grado di giudizio, ha mostrato una serie di imprecisioni e contraddizioni che hanno riguardato anche la professione infermieristica.

 

 

La vicenda è nota e ne tralasciamo la complessa ricostruzione. Gli infermieri erano stati rinviati a giudizio in relazione al pesante reato di abbandono di persone incapaci – da qui la competenza della Corte di assise in luogo del Tribunale – derubricato in sentenza in omicidio colposo, per una serie di comportamenti di carattere omissivo con particolare riferimento alla mancata adozione di dei più “elementari presidi terapeutici e di assistenza che nel caso di specie apparivano doverosi e tecnicamente di semplice esecuzione ed adottabilità e non comportavano particolari difficoltà di attuazione essendo peraltro certamente idonei a evitare il decesso del paziente”. Il capo di imputazione, oltre a tre infermieri, era condiviso da sei medici. Per lesioni personali erano imputati gli agenti di polizia penitenziaria.

 

A giugno la lettura del dispositivo della sentenza aveva lasciato molte perplessità in ordine alla assoluzione degli agenti di polizia penitenziaria per l’accusa di lesioni personali e all’assoluzione degli infermieri per il reato derubricato a omicidio colposo. Tenui, rispetto alle richieste, le condanne dei medici.

 

Pochi giorni fa’ sono uscite le corpose – oltre 180 pagine – motivazioni della sentenza che affronteremo solo per gli aspetti – decisamente marginali – riguardanti gli infermieri, ma che sono degne di uno spunto di riflessione.

 

In poche righe la Corte di assise di Roma (sezione III, sentenza 13/2013) assolve gli infermieri precisando che “conformemente a quanto ritenuto dai periti, non era nelle loro facoltà di sindacare le iniziative dei medici alle quali risultano essersi attenuti: la conseguenza che gli stessi vanno assolti per non avere commesso il fatto”. Assoluzione piena con una motivazione che attesta una piena subordinazione professionale al medico.

 

Da un’analisi analitica della sentenza – non pensabile in questa sede – l’operato degli infermieri merita molte censure, ma l’interesse quasi di carattere sociologico che prevale sul carattere giuridico è relativo all’inciso della Corte di appello di Roma quando sottolinea la sua adesione – usando l’avverbio conformemente – alle tesi dei periti.

 

Ci riferiamo alla perizia medico-legale svolta in dibattimento e non ovviamente alle consulenze di parte. Si tratta di un’equipe di ben sei medici: quattro clinici e due medici legali.

 

Interessante riportare parte del paragrafo – riportato integralmente nelle motivazioni della sentenza – denominato “la responsabilità professionale dei medici”. Le questioni legate alla responsabilità professionale dovrebbero essere appannaggio diretto dei giudici e comunque non demandate a operatori non del diritto che mostrano, anche nel linguaggio, una non compiuta conoscenza aggiornata neanche delle qualifiche mediche (“medici di primo livello” e “medici di secondo livello” sono espressioni che non hanno diritto di cittadinanza dalla c.d. riforma ter del Servizio sanitario nazionale e quindi dal 1999). Ovviamente anche gli infermieri sono rimasti IP (così nella loro perizia).

 

Scrivono i medici nella loro perizia:
La professionalità delle infermiere della notte appare quindi discutibile (è possibile lasciare un catetere chiuso per quasi ventiquattro ore?) nell’assenza di qualsiasi riferimento ad eventuali scariche alvine, nella mancata registrazione del peso corporeo, nella indicazione del quantitativa d’acqua assunta per os solo per la giornata del 21 ottobre 2009, nei confusi riferimenti alla dieta che, forse per celiaci, giorno per giorno (e tre volte al giorno) era effettivamente proposta al paziente, senza che, di volta in volta, se ne fosse registrato il rifiuto, ovvero l’assunzione anche solo parziale; nell’assenza di qualsivoglia segnalazione sulle pratiche di igiene personale”.

 

E inoltre, continuano i giudici romani, “è da ribadire che gli infermieri segnalano gli eventi; certo vi sono criticità nel controllo della diuresi e di alcuni controlli di parametri clinici di base, non sempre condotti, né eseguiti con regolarità; ma disporre tipo e frequenza dei controlli è compito del medico e non dell’infermiere: comunque, anche rilevando alcune manchevolezze e imprecisioni nella compilazione del diario infermieristico, a carico degli infermieri non si individuano profili di responsabilità professionale che abbiano influito in qualche modo sulla evoluzione della patologia di Cucchi Stefano e che, quindi ne abbiano in alcun modo condizionato il decesso”.

Gli infermieri si sono negligentemente comportati ma non hanno, quindi, in alcun modo influito nella morte di Stefano Cucchi. Così la sintesi delle motivazioni della Corte di assise.

 

La causa di morte è stata però individuata – molte polemiche sul punto – nella “sindrome da inanizione”. Stefano è, cioè, morto di fame e sete in un ospedale dopo tre giorni di ricovero. Sono mancati tutti i soddisfacimenti dei c.d. bisogni di base di cui l’infermiere è, tradizionalmente, il regista e attore della loro soddisfazione, e in particolare modo il soddisfacimento del bisogno di alimentazione.

 

E’ credibile che si possa morire in un ospedale a trenta (30!) anni di fame e di sete senza che in alcun modo vi sia il contributo causale di chi assiste la persona? Prima si indicano le gravi manchevolezze (tenendo presente la causa di morte): gli infermieri non hanno pesato il paziente, misurato la diuresi, controllato l’alvo, controllato l’alimentazione ed effettuato l’igiene personale. Poi però si conclude che non hanno in alcun modo “condizionato il decesso”.

 

E’ pur vero che le condizioni strutturali del reparto di medicina protetta non facilitano in alcun modo alcune delle funzioni attribuite dalla normativa agli infermieri: ricordiamo che è un reparto-carcere o più esattamente un carcere-reparto. Pazienti-detenuti ricoverati in celle chiuse a chiave la cui apertura è demandata alla polizia penitenziaria presente nel carcere-reparto. Alla luce di questo definirla “struttura protetta” è quasi un eufemismo.
Queste prime riflessioni servono da spunto per ulteriori approfondimenti della vicenda emblematica e non conclusa (lo ricordiamo è una sentenza di primo grado) di Stefano Cucchi.

 

Il 4 ottobre a Firenze vi saranno gli approfondimenti a più voci del caso e la testimonianza della sorella Ilaria.

Programma su www.lucabenci.it

 

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