Era il 20 febbraio 2020, tre anni fa. Ogni grande tragedia ha il suo giorno della memoria. Il nostro orgoglio nazionale è stato istituito con la legge 13 novembre 2020. È una giornata promossa per onorare il lavoro, l'impegno, la professionalità e il sacrificio del personale medico, sanitario, sociosanitario, socioassistenziale e del volontariato nel corso della pandemia da Coronavirus
. Sono le parole dell’allora ministro della Salute Roberto Speranza, alla prima celebrazione nel 2021. L'iniziativa nasce dall'intuizione e dalla sensibilità di uomini d'arte, il regista turco Ferzan Ozpetek e il paroliere Mogol, che con le immagini e le parole sono maestri nel raccontare e cantare la vita.
Non sono stati giorni persi, sono stati giorni intensi
Ciascuno, come accadde l'11 settembre, ricorda perfettamente in che cosa fosse affaccendato quel 20 febbraio o nei giorni strani ed incerti che seguirono questa data infausta. Era il giorno in cui veniva data la notizia del primo caso di contagio da Sars-CoV2 a Codogno ed il virus veniva isolato per la prima volta all'ospedale Sacco di Milano.
Come oggi, era tempo di Carnevale. Il 21 febbraio ero a teatro, mettevamo in scena “Alice nel Paese delle meraviglie” e alla fine della rappresentazione giunse dal pubblico in sala la notizia che avevano chiuso l'ospedale di Schiavonia, con tutti dentro, e confinato in zona rossa un intero paese della provincia padovana.
Era arrivato l'esercito al secondo caso di Covid. Il Paese delle meraviglie, come lo avevamo vissuto fino ad allora, con i suoi balocchi e le sue certezze, era finito ma ancora non ce ne rendevamo conto.
Il 22 ero ad una festa in maschera in un palazzo palladiano sui colli. Già c'era una strana sensazione nell'aria, la paura di qualcosa di ignoto. La mascherina veneziana sul volto mi celava solo gli occhi, per l'incanto di una sera. Mai avrei immaginato che dal giorno dopo avrei indossato, senza più toglierla per tre anni, una maschera messa al contrario, a coprirmi naso e bocca lasciando fuori solo gli occhi. Non per gioco e diletto, ma per salvarsi la vita.
È stata l'ultima volta che ho recitato e l'ultima che sono stata a divertirmi in mezzo a tante persone senza avere paura dei loro respiri. Pochi giorni dopo, il coprifuoco e il confinamento dettato dal dpcm del 9 marzo sono stati soltanto l'inizio di qualcosa più grande di noi. Che abbiamo affrontato come abbiamo potuto. E siamo stati bravi, dovremmo dircelo almeno tra noi se non ci fossero gli altri a ricordarcelo. Ce lo dobbiamo, prima che ce lo debbano gli altri. Per il futuro, dobbiamo ricordarci chi siamo stati.
Tre anni sono tanti, si dilatano se il tempo come lo conoscevamo si ferma e il giorno è uguale al giorno prima. Ogni persona nel mondo ha affrontato questi giorni lunghi e difficili, ciascuno a suo modo. La maggior parte dei sanitari e dei volontari, che si vogliono ringraziare per quanto hanno fatto, ha svolto la sua parte con senso del dovere e con gratuità. Ancora oggi, che la pandemia è sotto controllo, una parte della società critica il modo in cui i sistemi sanitari e le istituzioni hanno agito, considerandolo inappropriato o esagerato.
La scienza e la legge stanno dando ragione alle autorità, così duramente messe in discussione, ma ora quel che davvero importa è capire che, da qualunque parte uno sia stato - dentro una trincea o dietro una barricata – in qualunque posto lo abbia vissuto – chiuso in casa o dentro un reparto Covid – è stato un evento che ci ha ferito tutti, prima che cambiato. Ognuno ha affrontato il Covid 19 con le risorse che naturalmente aveva a disposizione al momento della sua improvvisa comparsa e con quelle che poi è riuscito a tirare fuori per essere resiliente e resistente. Ognuno, con i suoi limiti e le sue fragilità, ha cercato di uscirne vivo e di proteggersi psicologicamente.
Ciascuno ha messo in atto i suoi meccanismi di difesa per proteggere non soltanto la salute ma anche l'equilibrio ed il benessere mentale. Qualcuno si è raccontato un'altra storia, altri hanno messo in dubbio, molti hanno agito o reagito affidandosi. Ed ora che il peggio sembra finito, ha senso soltanto uscire dalla trincea che ci ha protetto, togliere le barricate che ci hanno diviso e chiederci cosa abbiamo imparato e cosa siamo diventati. Ha senso chiederci come stiamo e guardarci l'un l'altro con compassione, perdonandoci. Ha senso ricordare, perchè siamo quello che abbiamo vissuto.
Ci sono stati 8 miliardi di modi di vivere la pandemia del secolo, 8 miliardi di teste che hanno formulato pensieri e ragionamenti diversi, 8 miliardi di persone che hanno avuto sentimenti contrastanti. La memoria, quella che resta intatta, è un momento collettivo. L'individuo ricorda invece frammenti interpretati dall'esperienza personale, i suoi ricordi lentamente sbiadiscono e resta la sensazione. L'umanità rammenta invece i fatti così come sono realmente accaduti. E sono innegabili.
Il 20 febbraio si festeggia qualcosa che è già storia. È un racconto che abbiamo costruito vivendolo minuto per minuto, respiro dopo respiro. Con miliardi di tamponi e miliardi di vaccini. Milioni di morti e milioni di altri che sono sopravvissuti al contagio. Con paura e stanchezza. E tanta fermezza. Essere storia non significa essere passato ma “conoscenza acquisita tramite indagine” da tramandare.
Le emergenze di qualsiasi natura sono sempre accompagnate da una minaccia alla salute mentale. Tutti, anche se in diversa misura e con diversi ruoli, abbiamo sperimentato un disagio psicologico. Quello che abbiamo vissuto non è normale, né ordinario. La maggior parte delle persone colpite migliorerà con il tempo, con o senza l'aiuto degli specialisti della mente. Secondo i dati Oms, il 22% di coloro che hanno vissuto guerre o altri conflitti nei dieci anni precedenti soffrirà negli anni successivi di depressione, ansia, disturbo da stress post-traumatico, disturbo bipolare o schizofrenia.
La maggior parte delle persone colpite dalle emergenze sperimenterà angoscia, sentimenti di ansia e tristezza, disperazione, difficoltà a dormire, stanchezza, irritabilità e rabbia verso qualcuno o qualcosa. Questo è normale ma se perdura il disagio diventa disturbo mentale e ci rende ancora più vulnerabili durante e dopo l'emergenza. Per la ripresa sociale ed economica complessiva di individui, società e paesi dopo le emergenze - secondo le line guida per la salute mentale e il supporto psicosociale approvate dall'Oms per una risposta efficace alle emergenze - ci vuole il primo soccorso psicologico con un supporto emotivo e pratico di prima linea, l'auto-aiuto ed il sostegno sociale della comunità. Anche la pandemia, come qualsiasi altra emergenza sanitaria, può contribuire a costruire sistemi di salute mentale migliori.
Poiché siamo il risultato di tutto quello che abbiamo sperimentato dalla nostra nascita, questi ultimi tre anni della nostra vita, che ne siamo consapevoli o meno, hanno impattato sulla nostra psiche. Siamo mentalmente invecchiati di decenni, preferibilmente maturati.
Così, se per me è diventato normale ed abitudinario indossare la ffp2 negli ambienti ospedalieri, se ancora non riesco ad affrontare i luoghi affollati come i concerti e i ponti di Venezia invasi dalle maschere di carnevale, se mi sento ancora sicura con un dispositivo di protezione delle vie aeree sui trasporti pubblici come negli uffici e nei supermercati, mi rendo conto che sono il risultato di quello che ho fatto, visto e sentito ogni giorno di questi tre anni. E mi perdono. E mi do tempo. Io l'ho vissuto così il Covid 19, diversamente da te che ora ti senti meglio e ti riprendi la tua vita prima di me. Un giorno, dopo di te, ci riuscirò anch' io.
Tuttavia, ci sarà sempre una giornata a ricordarmi la grandezza di quello che abbiamo affrontato e la resilienza delle professioni sanitarie. Al di là di ogni critica, accusa e sbaglio che ci viene rimproverato da chi non era al nostro fianco e in prima linea. O da chi non ha capito o non ha accettato. So solo che, pur guardando avanti con un sorriso ed un sospiro di sollievo, rivivrei ogni singolo giorno della nostra memoria.
Perché non sono stati giorni persi, com'è percezione comune. Sono stati giorni intensi. Ho vissuto forse più di prima. Nella portata eccezionale dell'evento, pur nella sua drammaticità ho capito il valore della vita. Ho colto la bellezza del vivere. La forza delle persone. E la mia. Sono cambiata. Mi sento migliore. Spero lo siano anche gli altri che lo dicevano come slogan.
Ma ora che l'emergenza sembra quasi finita quello di cui adesso ho bisogno è un posto tranquillo, isolato dal mondo, in cui possa far riposare i miei nervi
. Scriveva ancora Murakami, quando la tempesta sarà finita probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c'è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato
(Norvegian Wood).
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