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Editoriale

Infermieri alla gogna mediatica?

di Giordano Cotichelli

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C’è molto da fare in senso democratico rispetto a questa gestione brutta dell’informazione, rispetto all’essere lasciati soli come vittime e familiari delle vittime, come utenti e come professionisti. In sanità, ma non solo.

PIOMBINO. Ritorno sulle vicende di Piombino, o meglio sulle sue ripercussioni mediatiche. Malvolentieri ho guardato la trasmissione Porta a Porta in cui ha partecipato la Presidente Mangiacavalli, e debbo dire di essere rimasto amareggiato dalla conduzione della serata che si è rivelata in linea con un “fare sensazionalistico e viscerale” che da troppo tempo ha spazio nei media.

L’incalzare delle domande, le considerazioni e le conclusioni non hanno certo reso facile il lavoro della Presidente Ipasvi che si è trovata quasi ad essere su di un banco degli imputati dove, prima ancora che la singola protagonista dei crimini di Piombino, sembrava fosse stata posta tutta la professione. Se poi si considera che nei giorni precedenti si era scatenata la polemica sulle considerazioni fatte da una giornalista in merito al lavoro degli infermieri del triage, il quadro è abbastanza preoccupante e va ben oltre i timori manifestati, a ragione da qualcuno, sulle difficoltà future che la professione avrà nel ricostruire una sua credibilità.

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Fausta Bonino, l'infermiere accusata di aver ucciso 13 pazienti con overdose di Eparina.

Andiamo per ordine. La credibilità professionale gli infermieri, e di tutti coloro che lavorano nelle professioni di aiuto e strettamente correlate ai servizi del welfare italiano, è sostenuta quotidianamente dal riconoscimento, molto spesso tacito, degli utenti, dagli outcome positivi, in termini di salute e di benessere, delle prestazioni, dall’esistenza nonostante tutto di uno stato sociale e di un servizio sanitario continuamente attaccati, ancora funzionanti. Qualche riconoscimento in più ovviamente non sarebbe sgradito, più che in termini monetari, in termini di peso decisionale, nei corsi di formazione, nella ricerca, nella programmazione sanitaria. O se si vuole nella valutazione globale del percorso carrieristico, del peso lavorativo e umano che l’infermiere (… e l’assistente sociale, e l’OSS, e l’insegnante …) è costretto a sopportare.

Purtroppo a questo livello la credibilità enorme che il corpo professionale ha, è essenzialmente relativa ad un rapporto fiduciario ad personam, di relazione a due fra utente e professionista, ed ogni volta che cerca di avere spazi più ampi c’è qualcosa che la mette in discussione. Non si vuol mettere in dubbio l’orrore e la gravità dell’accaduto di Piombino, e tanto meno non riconoscere la sofferenza delle vittime e dei loro cari. In alcun modo, ovviamente.

Giustizia, fede ed istituzioni saranno chiamate in causa per dare risposte, si spera, se non soddisfacenti, almeno confortanti. E’ bene però soffermarsi sul quadro generale dei fatti e prendere in considerazione che, nell’ultimo quarto di secolo, in Italia, gli episodi accertati di azioni criminali di infermieri, riguardano sei persone. Cifra che non si discosta di molto dalla media presente in altri paesi a testimonianza di una criticità cui deve essere posto rimedio a tutela di chi è più debole. La letteratura e la cinematografia, del resto, registrano il fenomeno periodicamente nelle sue rappresentazioni narrative; una su tutte la famosa infermiera del film “Misery non deve morire”. Ed allora, fatte salve le considerazioni già esposte in precedenza, in merito alla dimensione gerarchica della sanità e dell’istituzione totale, e tornando ai fatti recenti, e alla loro esposizione mediatica, viene da interrogarsi sull’uso diretto delle informazioni da parte dei media e di chi li controlla.

La notizia urlata, il sensazionalismo e l’assolutamente si, dominano la scena di un panorama informativo in cui la notizia viene bruciata in un rincorrersi continuo fra web, tivù e giornali. Ragioni, analisi, approfondimenti, cultura e conoscenza vengono triturati nei pochi minuti che separano uno spot pubblicitario dall’altro. Il noto professore universitario Noam Chomsky, in un’intervista fatta di recente, ricorda di aver rifiutato una volta una partecipazione televisiva in cui la giornalista gli avrebbe messo a disposizione pochissimi minuti per poter parlare di gravi problemi economici e sociali. Il risultato sarebbe stato che qualsiasi cosa avesse detto, secondo lui, la giornalista l’avrebbe utilizzata secondo un copione già preordinato.

Un copione, per tornare al quadro italiano, in cui la sanità sembra far notizia solo quando è “malasanità” e non quando è eccellenza. Il professionismo risalta alle cronache solo quando si tinge di orrore e non quando, quotidianamente, cerca di combattere l’orrore della solitudine, del dolore, della malattia. Allora la questione diventa più grave di quanto non appaia. Il sensazionalismo diventa funzionale a spendersi nell’immediato poi, la risoluzione dei problemi, la loro comprensione e gli strumenti da adottare decadono, scompaiono, non vengono considerati, e resta solo una sensazione di frustrazione profonda in chi per primo ha sofferto una perdita, è stato una vittima e in chi non vuole che tutto il suo operato professionale possa essere rinnegato dal blaterare sguaiato di qualche imbonitore di turno.

C’è molto da fare in senso democratico rispetto a questa gestione brutta dell’informazione, rispetto all’essere lasciati soli come vittime e familiari delle vittime, come utenti e come professionisti. In sanità, ma non solo.

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