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Infermieri interrotti durate la terapia: la soluzione esiste!

di Nadia Boasi

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Le continue interruzioni ad opera dei parenti/caregiver durante la somministrazione della terapia sono una delle ragioni per cui spesso l’infermiere è a rischio di incorrere in errori terapeutici.

La somministrazione della terapia è un momento fondamentale e molto frequente durante un turno di lavoro che per la sua complessità richiede tranquillità ma soprattutto una totale assenza di qualsiasi distrazione.

UTOPIA? forse sì.

Sfido qualsiasi infermiere nell’ammettere di non essere mai stato distratto da qualcuno o qualcosa durante l’atto di somministrazione della terapia.

Purtroppo con il termine distrazione si fa riferimento a tutti quei parenti, familiari, badanti o caregiver che puntualmente durante la somministrazione della terapia si avvicinano a noi infermieri per porci qualsiasi tipo di quesito; dal chiarimento rispetto la terapia prescritta o per dubbi in merito all’assistenza o ancor peggio, molto spesso si viene distratti da richieste assurde e a volte irrazionali come aprire o chiudere le finestre o accendere o spegnere le luci.

Alcuni parenti si avvicinano con cautela intimoriti dal fatto di poter ricevere una risposta sgarbata ma anche da coloro che invece si impongono bruscamente con il fare di chi esige e pretende risposte immediate e dovute.

Ma partiamo dal principio: somministrare non significa solo “distribuire qualcosa a qualcuno” ma racchiude una serie di azioni sia mentali sia fisiche che richiedono ragionamento, precisione ma soprattutto attenzione.

Innanzitutto molto spesso si lavora su supporti (carrelli) troppo piccoli rispetto al quantitativo di farmaci e presidi sanitari necessari per la terapia, che di per sé possono creare confusione ma soprattutto disordine con il rischio di generare errore e se a questo si aggiungono continue interruzioni da parte di persone esterne allora l’errore sarà di certo sicuro, in quanto somministrare una compressa o infondere un farmaco non significa solo aprire una scatola o diluire un medicinale, non è un solo atto tecnico, ma richiede una valutazione dettagliata rispetto a ciò che si sta somministrando.

Attenzione, con questa frase non deve passare un messaggio sbagliato, ma è importante precisare che non sono gli infermieri a prescrivere la terapia, ma nell’atto della somministrazione possediamo quelle competenze necessarie per decidere se somministrare o meno un determinato farmaco.

L’esempio dei farmaci antiipertensivi calza a pennello, in quanto in alcuni casi è importante valutare a priori se è necessario che quel farmaco venga assunto da quel paziente e questa valutazione deve essere fatta in tranquillità senza il timore di sbagliare soprattutto a causa di una distrazione esterna.

A seguito di queste riflessioni sorge spontaneo domandarsi quale sia la ragione per cui i parenti, badanti o caregiver adottano questo comportamento in questa specifica circostanza.

Possibile che non si rendano conto di mancarci di rispetto? Eppure in qualsiasi altro contesto lavorativo le persone aspettano il proprio turno senza disturbare i lavoratori, ma pare che nei reparti ospedalieri questo non sia possibile.

Ancora di più questo comportamento diventa incomprensibile quando lo stesso parente, durante la visita medica non si permette di interrompere il curante durante lo svolgimento delle sue mansioni, capendo bene che distrarlo non è rispettoso ma soprattutto causerebbe un rallentamento del lavoro di tutta la giornata.

Ma se non fosse esclusivamente mancanza di rispetto? Se una parte di questi parenti fosse davvero premurosa a tal punto da interrompere l’infermiere durante la sua attività lavorativa per conoscere o chiarire dubbi e perplessità clinico- assistenziali?

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Sicuramente molti di loro rientrano in questa categoria e a questo punto diviene necessario trovare una soluzione opportuna che possa sia facilitare l’infermiere nell’esecuzione della terapia senza alcuna distrazione, ma anche nel rendere tranquillo e soddisfatto il parente/caregiver rispetto le molteplici perplessità che si presentano durante il ricovero del proprio congiunto.

Una modalità potrebbe essere quella di garantire al parente un incontro tri-settimanale o con frequenza maggiore se ritenuto necessario.

Innanzitutto in un luogo dove si possa garantire il rispetto della privacy, ma soprattutto gli si possa dedicare tutto quel tempo necessario al fine di rassicurarlo (non tanto da un punto di vista clinico, che come ricordiamo non è competenza infermieristica) ma esclusivamente rispetto la reale presa in carico, e soprattutto di ascoltarlo rispetto a tutti quelli che sono i suoi timori, paure e perplessità al fine di creare quel rapporto di fiducia che infine porterà il parente ad avere più rispetto nei confronti dell’infermiere assicurandogli anche una maggiore tranquillità nel momento della somministrazione della terapia o di altre attività assistenziali dal momento in cui la maggior parte dei suoi dubbi sono stati preventivamente chiariti in altra sede.

Probabilmente solo attraverso un confronto diretto, un dialogo aperto e di conseguenza la creazione di una relazione basata sulla fiducia e non sulla diffidenza e la mancanza di rispetto, il parente/caregiver può diventare un vero alleato e quindi un aiuto per l’infermiere.

Nel 1999 fu redatto il patto infermiere- cittadino; un’interpretazione a largo spettro può far riflettere sul fatto che nel momento in cui si prende in carico e si fornisce assistenza ad un paziente/cittadino di conseguenza sono inclusi anche i loro familiari-caregiver, in quanto il reale valore del prendersi cura non si limita solo al singolo soggetto ma anche a tutti coloro che gli stanno attorno.

Dal patto-infermiere cittadino del 1999:

“DARTI RISPOSTE: chiare e comprensibili o indirizzarti alle persone e agli organi competenti.”

“FORNIRTI INFORMAZIONI: utili a rendere più agevole, il tuo contatto con l’insieme dei servizi sanitari.”

 

 

 

 

 

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