MILANO. “Riesco a trarre coraggio da dentro di me, da tutto quello che mi circonda, la mia famiglia, amici, l’atletica, i miei ragazzi, ma fondamentalmente una fede in Dio ritrovata e, per certi aspetti migliorata”. E’ l’espressione di Luca Panichi tratta dal suo libro intitolato “La mia corsa… continua” che sarà presentato a Montevarchi (AR) il 26 ottobre. Luca è uno dei simboli dell’altetica leggera del Valdarno, varie volte campione regionale di corsa campestre, un titolo europeo nel 1992 e Fiaccola d’argento nel 1999 come migliore atleta toscano dell’anno. Ha scoperto di avere un cancro ad un polmone, un adenocarcinoma con metastasi, e questo gli ha stravolto la vita dando un significato completamente diverso al tempo, da quel momento la clessidra si è capovolta.
"Perché è successo a me?” . Inizia a farsi tante domande. Eppure non aveva mai fumato una sigaretta, ha sempre condotto una vita da sportivo, concedendosi al massimo un bicchiere di vino o di birra, mai fatto uso di sostanze dopanti, puntando sempre sulle sue uniche forze. L’atletica è il simbolo della fatica, della vita respirata a pieni polmoni e Luca lo sa bene.
Con coraggio, determinazione e voglia di trasmettere agli altri il suo ottimismo sta correndo la sua nuova gare, quella contro il cancro. Quel 14 dicembre dello scorso anno, saputa la “sentenza” della sua malattia, è seguito dall’amico Fabio Venturini, che lo definisce il suo angelo custode, infermiere nel reparto di oncologia dell’ospedale dell’Annunziata. “Non credevo, scrive Luca, che quel reparto sarebbe diventato in poco tempo il mio nuovo campo di allenamento, la mia pista, accanto a quella di Sorgane che mi ha dato tanto sudore, fatica e gioia”.
Vive a San Giovanni Valdarno, padre di due figli, 17 e 13 anni, e una moglie che non smette mai di stargli vicino e quella voglia di testimoniare, di mettere a disposizione degl’altri la propria esperienza e soprattutto ricevere tanto affetto. Prima tramite post su Facebook, poi un blog nel sito di informazione di Valdarnopost e infine, complice un’amica, Vania Piovosi, un libro.
Racconta di aver trovato e di essere circondato da professionalità, passione e grande umanità: “Le infermiere si sono trasformate in giudici di gara, la capo sala nel giudice d’appello che controlla lo svolgimento regolare della mia corsa. Per la prima volta avevo due coach, due donne, con la D maiuscola. Due persone diverse l’una dall’altra, ma con l’animo buono e sensibile oltre ad una grande professionalità e una forza d’animo che le uniscono, ed erano tutte concentrate verso di me. Se vinceremo questa grande sfida, sarà una grande festa e loro avranno fatto una grande impresa”.
La speranza è viva dentro di lui anche se ha solo il 5% di probabilità di vivere nell’arco di tempo di 5 anni.“Tutto è possibile ed anche nei momenti bui bisogna trovare la luce. Lo sport, la corsa in modo particolare, trasmette questo. E’ come se fossi rinato per la seconda volta e, paradossalmente, la malattia mi avesse reso migliore. Questo voglio trasmettere, che la corsa continua, con tutte le sue emozioni e anche le sue amarezze”.
Quello che gli è capitato, dice, “mi ha chiesto di pensare, di guardare oltre la montagna, di guardare il tramonto e di capire che oltre tutto questo esiste ancora molto da vedere e scoprire. La mattina mi sveglio e sento il profumo dell’aria e questo mi rende felice e leggero, è una scossa di adrenalina impagabile e fortemente benefica”.
E’ cosi che nella sua mente la chemio, faticosa e difficile da sopportare, ha preso il posto delle 100 km nel deserto a tappe, una gara che ha sempre sognato di fare con i suoi amici preferiti.
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