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Editoriale

Quante donne sono nella stanza dei bottoni?

di Giordano Cotichelli

Oggi, martedì 5 dicembre, presso la Basilica di Santa Giustina, a Padova, si terranno i funerali di Giulia Cecchettin. Una scelta per fare in modo che una grande partecipazione possa rendere più forte il grido di denuncia contro il femminicidio. Il padre di Giulia dirà qualche parola, anche se, a detta sua, se la cava meglio con l’elettronica, ma proverà ugualmente a scrivere nel migliore dei modi quello che sente di dire, quello che bisogna dire e quello che va detto. Qualsiasi saranno le parole pronunciate, andranno bene comunque per rimarcare il lutto partecipato di una comunità e il rifiuto di cedere alla reazione, alla vendetta ed alla brutalità, alle stesse pulsioni che hanno strappato Giulia alla vita e ai suoi cari.

Tentata violenza in ospedale ai danni di una tirocinante infermiera

Prendete un qualsiasi ospedale di questo paese ed enumerate le posizioni apicali, dirigenziali o di potere, presenti in termini di ripartizione di genere: quante donne sono nella stanza dei bottoni? E quanti sono gli uomini?

Il Governatore della Regione Veneto si è unito al cordoglio generale con parole di condanna e di giudizio politico, ricordando il numero di 6.000 donne che si sono rivolte, nel solo Veneto, ai centri antiviolenza, di cui un 25% è passato prima dal Pronto soccorso.

Numeri brutti, specie se relativi ad un Veneto operoso e civile, che è Italia, che è Occidente. Così ha detto il Governatore, che ha continuato sottolineando come sia necessaria la risposta della comunità per far crescere una coscienza di tutti, contro il comportamento di qualche troglodita che però non può bastare per definire patriarcale questa società.

Puntualizzazioni necessarie, in parte condivisibili, anche se fortemente strumentali, più orientate ad interpretare ideologicamente i fatti (maschilismo vs patriarcato), che non a sostenere argomentazioni. Le polemiche servono, in questo come in altri casi, solo a chi vuole speculare sulle umane disgrazie ed ancor più sull’ennesimo oltraggio omicida operato sul corpo delle donne.

In questo purtroppo la realtà supera ogni retorica politica o istituzionale. Una realtà che parla di altri femminicidi in Italia, consumati in questi giorni e di una mancata violenza avvenuta proprio a Padova, addirittura in ospedale, ai danni di una studentessa di Infermieristica, durante un turno di notte.

Il responsabile sarebbe un infermiere il quale avrebbe prima rivolto apprezzamenti pesanti alla giovane tirocinante, per passare poi alla molestia e alla costrizione, finalizzate a consumare una violenza sessuale che solo la pronta reazione ed il coraggio della giovane, ne hanno impedito il compimento.

La ragazza è riuscita a barricarsi in uno sgabuzzino e da lì ad avvisare la famiglia, che ha allertato le forze dell’ordine, prontamente intervenute. L’infermiere è stato tratto in arresto.

La realtà che supera e smentisce le parole del Governatore del Veneto, sembra rispondere lo psicoanalista Massimo Recalcati il quale, sulle pagine dell’Avvenire, giorni fa, fra le tante osservazioni sottolinea: La cultura maschilista, come figlia naturale dell’ideologia del patriarcato, non è più in una posizione dominante. Sarebbe impossibile non riconoscerlo. Ma la sua brace non è del tutto spenta.

Ed ecco quindi che il femminicidio diventa la risultante di un mostro con due teste: da un lato quella narcisista e dall’altra quella della depressione. La prima afferma la personalità del maschio portando alla cancellazione dell’esistenza della donna in un attimo eterno, ed assassino, in cui la depressione dell’abbandono viene rigettata in un limbo eterno di morte.

Osservazioni molto più pertinenti rispetto a tante altre fatte, specie da politici e imbonitori vari, ma qualcosa manca. Qualcosa manca, altrimenti si sarebbe tentati di dare ragione ad un generale, di un mondo alla rovescia, che liquida la questione dei femminicidi, e delle violenze, in una lettura individuale, quasi pedagogica, volta ad educare militarmente quelli che sono ritenuti banalmente – e superficialmente - semplicemente degli smidollati.

Già, qualcosa manca, anzi molto di più, e va cercato non solo nella dimensione intimistica dell’individuo, ma in quella di sistema e forse non è un caso che l’ennesimo episodio di violenza si consumi in un ospedale.

Chi ci lavora in ospedale, chi lo conosce come professionista e come operatore, ed anche come paziente, o semplice cittadino, caregiver o utente, è consapevole della dimensione di istituzione totale che questo luogo rappresenta. Conosce la gerarchia che lo regola e lo pervade attraverso l’angoscia della malattia, l’ansia della perdita dell’autonomia e la paura della morte.

Si potrebbe affermare che in ospedale si consumano relazioni ed episodi che in un qualche modo soffrono di un certo grado di corruzione maschilista, ma c’è di più. C’è di peggio.

Non è forse l’ospedale il luogo in cui proprio le donne trovano ulteriore conferma della schiavitù della loro condizione, del loro corpo inteso come contenitore di progenie umana che nega la libertà di decidere se essere o meno madri?

Le donne meno libere di dare retta alla loro coscienza, al contrario di come qualcuno, in nome di un’altra coscienza, si sente di obiettare al suo dovere deontologico di professionista. Un esempio isolato? O forse l’estremo atto di un mondo dove le braci del paternalismo – per dirla con Recalcati – sono più ardenti che mai?

Esercizio di retorica che rischia di mandarci fuori strada? Probabile, ma per sicurezza prendete un qualsiasi ospedale di questo paese ed enumerate le posizioni apicali, dirigenziali o di potere, presenti in termini di ripartizione di genere: quante donne sono nella stanza dei bottoni? E quanti sono gli uomini? E, nel momento che tirate le somme cercate di affermare che è una questione solo di maschilismo e non tanto di patriarcato, cioè di potere dei padri che difendono la patria, sacra al santo di turno, anzi… al patriarca.

Al di là delle parole, la cosa importante è una sola

Che non ci siano più donne uccise, violentate o molestate. Non più, non una di più! Un bel pensiero che se si fa rivendicazione politica può diventare orizzonte da conquistare, utopia da anelare, cambiamento per cui lottare.

Il resto è solo demagogia illusoria più o meno ipocrita a seconda del grado di potere esercitato da chi la invoca. Cosa resta da fare? Molte cose.

Intanto cercare di stare vicini alla famiglia di Giulia e alle tante altre donne che ogni minuto subiscono una violenza. Poi, se ci si vuol chiarire ulteriormente le idee, si può anche guardare la miniserie televisiva – disponibile su Rai Play – dal titolo “Circeo”, dove si narra la storia degli stupri e degli omicidi fatti dai rampolli violenti e malati - e fascisti - della Roma bene degli anni ’70.

Una fiction, niente di che, ma che parla del dramma delle donne di farsi valere come persone, come individui, come soggetti di questa società e non come contenitori o come oggetti. Una narrazione che parla della difficoltà di portare avanti processi e di lottare contro la società patriarcale ben espressa da alcuni principi del foro pronti a difendere sia il proprio maschilismo sia il patriarcato cui appartengono.

Circeo è una serie da vedere o rivedere, pensando a Giulia, a Rosaria Lopez, a Donatella Colasanti e alle tante donne vittime di ieri, di oggi e di domani. Da vedere con il pensiero rivolto anche ad una giovane tirocinante infermiera chiusa in uno sgabuzzino, sperando che il luogo stretto e buio in cui si è rannicchiata presto diventi spazio, luce e libertà. E sicurezza, per tutte.

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