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Editoriale

La Sanità universalistica e le sue condizioni di salute

di Fabio Albano

La costituzione del Servizio Sanitario Nazionale, avvenuta con la Legge 833 del 1978, ha tra i suoi principi fondamentali l’universalità, l’uguaglianza e l’equità. Il significato ultimo è l’estensione delle prestazioni a tutta la popolazione. Questo è un principio inalienabile che dev’essere difeso attraverso qualsiasi tipo di pensiero e di manifestazione di idee. Bisogna, però, considerare che le idee, anche quelle buone, vengono gestite dagli uomini, quindi non sempre da quelli buoni e/o capaci. Inoltre, va inteso che esistono tanti problemi, di natura differente, condizione tipica dei sistemi complessi, che non permettono un’analisi semplice e lineare nel tentativo di identificare difficoltà e conseguenti rimedi. È pur vero che sono note ormai da tempo a tutti gli studiosi del Sistema Sanitario - ma lo sono anche ai profani, almeno dal momento in cui questi esercitano il diritto di avvalersene - le principali difficoltà nel rendere universale un sistema che rischia di risultare obsoleto e, quindi, difficilmente adattabile al contesto storico in cui stiamo vivendo.

Cosa ha fatto ammalare il nostro sistema sanitario

Possiamo nutrire speranze che la politica eserciti il proprio ruolo nella salvaguardia dell’universalità del Ssn?

Ad oggi le maggiori difficoltà di esercizio sono ritenute: un inadeguato sviluppo delle cure nei territori periferici e oltre, una certa vetustà dei modelli architettonici ospedalieri, un esiguo numero di professionisti della salute - mancano medici di medicina generale, ma pure anestesisti, oculisti chirurghi, medici della medicina d’urgenza, infermieri, Oss, ecc. - un invecchiamento della popolazione e un forte calo delle nascite, sistema ospedaliero e territorio che quasi mai si parlano, spese inutili a fronte di esigenze che appaiono inderogabili.

E chi più ne ha più ne metta.

Se queste, ma pure altre, possono essere considerate le cause della malattia del nostro Ssn, ci si deve predisporre al riconoscimento delle condizioni che hanno condotto a tale sofferenza. La prima considerazione che dev’essere posta è quella relativa al fatto che la Sanità, così come mille altri mondi professionali, non può essere pensata in maniera cartesiana, effetto-causa, ma dev’essere studiata mediante l’analisi dello sviluppo dell’insieme, laddove la somma delle parti è più del tutto. Pensiero che dovrebbe essere ben noto a chi si occupa di sanità. In realtà è lecito nutrire seri dubbi in proposito! Proviamo a chiarire alcuni pensieri.

Per prima cosa, non possiamo pensare ad un modello sanitario che ripercorra le medesime strade intraprese nel lontano 1978. Sono cambiati gli scenari sociali; l’etica, per esempio, è mutata con il mutare delle condizioni sociali. Come sempre prima variano pensiero ed esigenze negli uomini, da cui nasce un nuovo sentimento popolare e sociale il quale cerca una conferma che solo la legiferazione può garantire. Solo così si ottiene la concretezza del concetto di Democrazia.

Il concetto di Cultura, invece, ha trovato adeguamento in uno strato sociale sempre più ampio, ma pagando lo scotto di un abbassamento del proprio livello. Inoltre, è sempre più evidente lo sfruttamento culturale per profitti personali. Condizioni, queste, che potrebbero apparire slegate a quanto stiamo cercando di comprendere, invece, fanno parte di ogni sistema complesso che desidera adeguarsi agli sviluppi della società.

Le difficoltà nel portare la sanità nelle periferie

Sino ad una quindicina di anni fa esistevano piccoli ospedali, quasi di quartiere, dove trovavano accesso pazienti affetti da patologie né particolarmente gravi né particolarmente urgenti. Lasciando questi duri compiti agli Ospedali maggiori.

Le patologie chirurgiche minori, tipo: safene, ernie della parete addominale, lipomatosi, malattie proctologiche non particolarmente importanti, ma pure alcune patologie ginecologiche e ortopediche potevano trovare soddisfazione chirurgica in questi piccoli ospedali decentrati.

I benefici immediati erano almeno due: la vicinanza della struttura alla residenza dell’assistito e dei famigliari che, visto l’innalzarsi dell’età media degli italiani non è cosa di poco conto e la possibilità di liberare, con maggiore facilità, posti letto chirurgici negli Ospedali più grandi e quindi dedicarli a patologie ben più gravi.

La medesima considerazione è possibile se trattiamo di patologie non chirurgiche. Un problema cardiologico importante va gestito negli ospedali maggiori, uno meno grave potrebbe essere di competenza di un piccolo ospedale di periferia.

La scaturigine di tale decisione logistica e non è conseguenza alla fase in cui si è deciso che la sanità, ovvero gli ospedali devono essere considerati come aziende. Quindi, come tali, devono fare ricorso a bilanci di gestione. Ne consegue che le spese dedicate alla cura delle persone trovano ostacolo nella politica economica cui ogni azienda sanitaria deve sottostare.

A distanza di anni i risultati maggiormente evidenti sono assolutamente negativi, infatti, i bilanci si chiudono comunque sempre in rosso, le malattie sono diventate fatture da assolvere e i materiali acquistati sono sempre di minore qualità. Ma non solo, si pensi che ogni assunzione di personale sanitario incide sul budget di ogni struttura. Quindi, per far quadrare i bilanci, si decide di limitare al minimo indispensabile le assunzioni.

I Pronto soccorso spesso vanno in tilt. La pandemia ci dovrebbe aver insegnato molte cose anche se ho molti dubbi in merito. Dicevamo che i PS sono spesso in difficoltà, sono anni che se ne parla, ma nessuno è riuscito concretamente a risolvere, magari anche parzialmente, il problema. Certo, perché a ogni manifestazione di perplessità in merito si fa sempre riferimento alle cause. Mai alle condizioni. Allora vuol dire che chi è deputato alla gestione della sanità pubblica non ha ancora inteso la differenza tra le due parole: causa e condizione. Constatazione particolarmente grave. Una soluzione, seppur parziale è quella dell’integrazione dei PS con i Medici di base e una coniugazione definita con il territorio.

E vogliamo parlare dei “baracconi” dedicati alla gestione della sanità? Non sarebbe forse il caso di ridurre, drasticamente, il numero di soggetti dedicati? Non sarebbe forse il caso di rendere operativi, in maniera clinica, alcuni soggetti professionali dedicati all’occupazione retribuita di suolo pubblico? Spesso non si riesce a capire chi fa cosa e, soprattutto, chi ha il compito di dover decidere.

Avete mai provato a porre il medesimo quesito a due dipendenti sedute a due scrivanie diverse ma poste nel medesimo ufficio? Ebbene, se non lo avete ancora fatto, fatelo. Scoprirete, aimè, che la probabilità di ricevere due risposte diverse è estremamente alta.

Negli ospedali, per esempio, non sarebbe giunto il momento di snellire le parti amministrative liberando risorse economiche da investire nel personale sanitario? I luoghi di cura sono tali oppure semplici aziende pubbliche? Se le risorse economiche sono veramente poche queste poche, devono trovare destinazione d’uso appropriata. Medesime perplessità bisogna averle circa la chirurgia robotica.

Attenzione, non si deve farne una questione clinica, ma una questione economica. Se un qualsiasi ospedale che fa fatica a gestire i propri reparti, vuoi per mancanza di personale, vuoi per inadeguate capacità gestionali, condizioni che conducono a un elevato rischio di deficit assistenziale, si permette il lusso di acquistare uno o più robot vuol dire che la visione, la strategia di chi è deputato al funzionamento dell’ente è quantomeno miope.

Non si possono investire soldi in situazioni che troveranno beneficiari in numero ristretto. Se il principio della nostra sanità continua a essere universalistico, ritengo maggiormente opportuno spendere quei medesimi denari nella ristrutturazione e/o nella gestione di un segmento ospedaliero in difficoltà.

Esiste, inoltre, un enorme problema relativo all’insufficiente reintegro del Personale Sanitario che lascia il SSN. Intanto poniamoci la domanda di come mai il nostro Ssn sta diventando sempre meno interessante agli occhi dei giovani professionisti che si approcciano a questo nostro mondo.

La questione culturale

La prima risposta pone l’accento sulla questione culturale. I nostri giovani vedono sempre meno la professione medica come una professione intellettuale. Viene sempre maggiormente vista come una professione interessante dal punto di vista economico. Condizione, questa, che spinge i giovani laureati verso la sanità privata. Ma non ci si può esimere dal sottolineare come le differenze di guadagno, a pro di chi esercita nella sanità privata, siano oltremodo esplicative della questione in essere.

Per noi infermieri la questione intellettuale si pone, ma in maniera differente. La nostra breve storia di professionisti laureati non ci fa, ancora, percepire appieno il senso intrinseco del nostro agire quotidiano. Appare ancora all’orizzonte un nebuloso desiderio di approssimazione alla figura medica, con tentativi di inserimento nella vita professionale clinica che rendono sempre meno chiara la meta della nostra professionalità: il Paziente. Pare quasi che la nostra formazione professionale in itinere abbia come mera esigenza la soddisfazione di carriera, invece che di potenziamento delle proprie competenze da porre in atto nel gesto della cura. Questa condizione, declina, quindi, smarrimento e incertezza.

Naturalmente anche in noi infermieri la parte economica non merita di essere sottovalutata. Sappia, però, chi crede che il soldo sia in grado di appianare tutti i sentimenti di contrasto, che ciò non è assolutamente vero. È altrettanto vero, però, che le nostre retribuzioni sono veramente insufficienti, condizione questa che non rende il giusto appeal al nostro agire professionale.

Vi è infine, un’ultima questione che è doveroso porre all’attenzione nella speranza che le riflessioni conseguenti dipanino una matassa più ideologica che concreta. Quest’ultima questione riguarda la sanità privata convenzionata. Poniamo in evidenza il fatto che esistono due tipi di sanità privata: una convenzionata con il Servizio Sanitario Regionale e una dedicata al privato puro. Comunque entrambe hanno il diritto di rappresentazione. Vediamo il perché.

La sanità privata convenzionata esiste perché va a supplire le carenze del sistema sanitario pubblico. Che è sì universalistico, che sì deve migliorarsi, ma non è scritto da nessuna parte che tutta l’attività dedicata al cittadino pubblico debba svolgersi all’interno di mura pubbliche. La diagnostica rappresenta, per esempio, quantità oceaniche da gestire in tempi i più rapidi possibile. Ma diciamo la verità: a te Paziente, con richiesta regionale, che devi essere sottoposto a TAC o RM che ti importa se questo esame diagnostico te lo fa un privato oppure l’ospedale X? La risposta è: assolutamente nulla.

Al paziente interessa che l’esame venga eseguito in tempi congrui alle proprie esigenze di salute, che l’esame venga eseguito con scansioni adeguate, quindi con macchine non obsolete, che chi referta sia in grado di farlo con le dovute competenze e che il personale risulti anche gentile ed educato. Il resto non conta. Il resto è pura ideologia da propagandare in tempi di elezioni.

Alcune riflessioni merita pure la chirurgia. Questa non è sempre eseguibile in strutture ospedaliere. Dipende, per esempio, dal Medico chirurgo cui uno si è approcciato. Se questi non lavora per il Ssn è evidente che porterà l’operando nella sala operatoria della struttura sanitaria convenzionata presso la quale afferisce. Allora vale qui il medesimo discorso fatto per la diagnostica. Con un’ulteriore riflessione da sviluppare: quale tipo di costi possono produrre gli interventi chirurgici?

Almeno due: uno diretto, riferibile alla procedura chirurgica e uno indiretto riferibile ai tempi di recupero. Quest’ultima condizione suddivide, ancora, la tipologia di spesa: da una parte l’eventuale prosecuzione delle cure, dall’altra la ripresa della normale attività quotidiana. Specie se l’operato risulta essere un lavoratore ancora nell’esercizio della propria professione.

In nuce: se un operato di tunnel carpale, Mister Alfa, riprende a lavorare dopo 30 giorni questi inciderà sui conti pubblici in maniera X; se sempre Mister Alfa, riprenderà dopo 45 o 60 giorni il suo incidere sui conti pubblici risulterà di X+Y, con un evidente aggravio dei costi indiretti. Inoltre, nel computo dei costi sociali indiretti, deve essere calcolata la tipologia di professione esercitata.

Se Mister Alfa risulterà dipendente di una struttura pubblica la variazione di ripresa dell’attività lavorativa avrà un’incidenza di tipo X, se questi è dipendente di una struttura privata il suo costo dipenderà dalla forza della struttura privata presso cui egli risulta dipendente. In ultimo vanno valutati i costi in caso di soggetto libero professionista.

In qual caso è assolutamente certo che la maggior parte dei costi ricadano su di lui, o su qualche fondo assicurativo, e che i tempi di recupero e di ripresa dell’attività lavorativa risulteranno inferiori rispetto a chi è dipendente. Esiste, poi, un’altra considerazione da porre in essere: se Mister Alfa che si è fatto operare di tunnel carpale mano sinistra, dopo 45 giorni decide di farsi operare di tunnel carpale mano destra i costi diretti risulteranno raddoppiati mentre quelli indiretti ancor di più. E se, sempre Mister Alfa, dopo altri 45 giorni decide di farsi operare di meniscectomia dx? Fate bene attenzione non stiamo parlando di situazioni di fantasia, tutt’altro. Allora qui si pone alla nostra attenzione una situazione paradossale che necessità, però, di un intervento legislativo.

Si dovranno porre delle regole, di tempo per esempio, circa i ripetuti accessi alla chirurgia riguardante patologie non primarie, non essenziali. Se i soldi destinati alla sanità pubblica sono pochi e/o insufficienti, si rende necessario un atteggiamento di salvaguardia delle risorse in questione. Si potrebbe andare avanti all’infinito. Fermiamoci qui.

Possiamo nutrire speranze che la politica eserciti il proprio ruolo nella salvaguardia dell’universalità del Ssn? Difficile per due motivi: primo perché il Ssn non esiste praticamente più ma, esistono 20 Ssr con sostanziali differenze; secondo perché dover agire in carenza/assenza di contributi economici costringerebbe i politici a dover attuare delle scelte impopolari che li danneggerebbero nelle future elezioni.

Dimenticavo, i fondi del PNRR. Intanto dobbiamo ancora prenderli, sicuramente una certa quota parte sarà convogliata al contenimento dei rincari energetici e un’altra parte si spera risulti destinata alla ricerca. Alla quale il nostro Paese ha da troppo tempo dedicato troppe poche risorse.

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