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Vivere in ospedale è Resistenza nonostante i turni massacranti

di Redazione

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È dare il meglio che puoi nonostante i tagli di posti letto e la mancanza di personale, nonostante i turni massacranti, nonostante la mancanza dei più banali supporti, nonostante le difficoltà logistiche, gestionali e organizzative, nonostante l’utenza che ti vede sempre più come un nemico da sfidare.

Chi lavora in un ospedale lo sa. È un microcosmo fatto di tacite regole, di orari sballati, di vita sociale ristretta, di intensa condivisione. È un mondo che, per chi lo guarda da spettatore esterno, risulta difficilmente comprensibile.

È un mondo che ti cambia, modifica i tuoi bioritmi, muta le tue priorità e, purtroppo, ridimensiona anche il tuo carattere. È come un amante che ti chiede di dedicargli tutte le tue energie e alla fine, per tutto il resto, ne avanza proprio poco.

Un amante che spesso rischia di mettere in discussione i rapporti più forti o boicotta quelli sul nascere.
Perché, se nel corollario umano che gravita intorno a medici e infermieri, possiamo trovare la moglie devota e orgogliosa che accetta con spirito di sacrificio gli straordinari (non pagati), le chiamate notturne, le assenze nei pranzi di famiglia, dall’altra, come residuo embrionale di un retaggio sostanzialmente maschilista, troviamo i mariti che sbuffano perché la moglie si è trattenuta oltre l’orario di lavoro (ma l’orario di un medico è un concetto aleatorio) e dall’alto del loro cartellino timbrato al minuto non riescono a entrare in questo meccanismo, aggravando i sensi di colpa, peraltro già ben radicati e indipendenti, delle mamme lavoratrici.

Ancora peggio per chi entra per la prima volta nella tua vita e ti guarda tipo marziana, ti fa domande tipo “Ma allora davvero fate il massaggio cardiaco?” o “Che rapporto hai con la morte?” (classica domanda da primo appuntamento per rompere il ghiaccio), osservandoti con distacco e curiosità, salvo poi capire che è stato bello pagare il biglietto per lo zoo, ma farti uscire dalla gabbia no: che sei troppo schizzata, non dormi mai, e per qualsiasi soffio di vento sei in stato d’allerta (succede quando passi ogni giorno con l’allarme della centralina nelle orecchie).

Vivere in ospedale è “Resistenza”. È dare il meglio che puoi nonostante i tagli di posti letto e la mancanza di personale, nonostante i turni massacranti, nonostante la mancanza dei più banali supporti, nonostante le difficoltà logistiche, gestionali e organizzative, nonostante l’utenza che ti vede sempre più come un nemico da sfidare.

È come la più classica delle relazioni disfunzionali: è qualcosa che ogni giorno si prende un pezzettino della tua anima, dei tuoi anni, della tua vita, dandoti pochissimo in cambio, ma da cui tutto sommato non riesci a staccarti.

Perché di questo forse hai bisogno, perché anche questa è vita. È vita il lungo corridoio che fai di corsa per arrivare in Pronto Soccorso, è vita l’adrenalina che esplode quando gestisci un’urgenza, è vita il grazie di un paziente o il sorriso di una vecchietta, è vita la soddisfazione che ti dà, facendo il giro la mattina, trovare rinata quella paziente critica con cui hai lottato tutta la notte.viverepiccola

Vivere in ospedale è come avere una seconda casa. Non c’è nessun ambiente lavorativo in cui la condivisione di momenti belli e meno belli è così forte da poter essere assimilato a una vera e propria famiglia. Una famiglia in cui si intrecciano e mescolano tutte le sfumature dei rapporti affettivi.

È quel posto dove ti viene difficile nascondere il tuo muso e le tue lacrime nelle giornate storte perché qualcuno se ne accorge ed è pronto a prenderti da parte e consolarti; è quel posto in cui si partecipa, con la stessa emozione e intensità, alla felicità di una bella notizia o alla sofferenza di racconti meno belli; quel posto in cui magari si litiga, ci si manda a quel paese, ma il giorno dopo si è di nuovo pronti a lavorare fianco a fianco e a darsi una mano. Dove ognuno ha la sua vita, la sua storia, le sue gioie, i suoi dolori, ma quando indossa la sua divisa, insieme al fonendo, mette su anche un sorriso ed è pronto a dedicarsi agli altri.

E se abbiamo scherzato, dissacrandolo, sull’aspetto sentimentale e amoroso della vita in ospedale, altrettanto non possiamo fare con quello che è un altro sentimento di grande valore: l’amicizia.

Esiste, ed è bellissima, anche in un posto così. È nel sacrificio di una collega che ti fa un turno per permetterti di andare a casa, è negli attimi rubati in uno spogliatoio a raccontarsi gli ultimi avvenimenti, è in quei rapporti che crescono giorno dopo giorno, in quei messaggi che ti strappano un sorriso, nelle parole e nei piccoli gesti che ti accarezzano il cuore.
La corsia è un osservatorio privilegiato su un grande spaccato della realtà.

La sofferenza con cui ci confrontiamo ogni giorno è lì a ricordarci quanto effimeri siano i nostri dispiaceri e i nostri tormenti, quanto tempo sprechiamo a dare importanza a cose che in realtà non ne hanno, quanto male viviamo, spesso, la nostra vita.

In fondo a chi ci considera dei privilegiati, direi che il privilegio è sostanzialmente questo: fare esperienza della vita vera, quella autentica, che passa purtroppo anche attraverso l’esperienza della morte, e farne tesoro per imparare a vivere ed essere persone migliori.

Natalia Gelonesi

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