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testimonianze

Non chiamatemi semplicemente infermiera

di Rosario Scotto di Vetta

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Il racconto della lunga trafila di studi ed esperienze e cosa significasse per lei svolgere il proprio lavoro

Kateri Allard

Kateri Allard

REDAZIONE. Sulle colonne del prestigioso Huffington, nella sezione Salute, l'articolo testimonianza di un'infermiera statunitense, Kateri Allard, pubblicato lo scorso 9 settembre, ha riscosso un successo mediatico tale da ritagliarsi uno speciale posto nel mondo.  

Sul portale della Federazione Nazionale dei Collegi IPASVI sono state pubblicate in italiano solo poche righe del toccante racconto.

La redazione di Nurse24 è riuscita a contattare Kateri Allard e in collaborazione con Benedetta Gigante e Maria Francesca Durazzo, ha tradotto l'intero articolo così che tutti gli italiani e soprattutto la gente comune sappiano che noi infermieri non siamo solamente tali ma siamo molto di più.

Nel mio primo anno da infermiera ho continuato gli studi, conseguendo la laurea specialistica in infermieristica, non ancora richiesta per lavorare come infermiera ma perché volevo qualcosa che mi rendesse completa e che mi facesse sentire un'infermiera rispettata. Uno dei corsi che ho dovuto frequentare durante questa specializzazione e' stato "Le problematiche professionali".

Il corso analizzava la professione dell'infermiere, i suoi ostacoli e il modo in cui noi, in qualità di infermieri, possiamo cambiare le cose. Ho imparato molte cose durante quel corso, ma la più importante, quella che più delle altre mi è rimasta dentro, è stata questa: Pochi giorni dopo l'inizio del corso, il nostro docente sottolineò una cosa: ognuno di noi da quel momento avrebbe dovuto eliminare la frase "sono solo un infermiere" dal proprio vocabolario.

"Sei un dottore?"
"No, sono solo un infermiere."

Ho passato sei anni cercando di evitare quella frase e più di tutto quella sensazione. Mi impegno molto in quello che faccio, ma sono consapevole che spesso i miei amici e la mia famiglia non abbiano idea di cosa significhi realmente essere infermieri.

Io non sono semplicemente quella che ti accompagna nella stanza del medico, ti siede sul lettino, misura la pressione sanguigna e va a chiamare il dottore. Anzi, sono spesso in una stanza con un bambino attaccato ad un respiratore, con tanti accessi venosi che attraverso le vene centrali mantengono il sistema vascolare ristretto o dilatato.

Monitoro i gas nel sangue e regolo le impostazioni del ventilatore. Se la pressione del sangue e' troppo alta, somministro farmaci in base a tali valori. Mantengo il mio paziente adeguatamente sedato ed immobile, per la sua sicurezza, senza esagerare con i farmaci. È spesso mia responsabilità determinare questo equilibrio.

Di recente ho avuto un paziente di quasi due anni che un giorno, in mattinata, si è sfilato da solo il tubo che lo aiutava a respirare. Non eravamo sicuri se fosse riuscito a stare bene senza, ho quindi monitorato il suo stato respiratorio per tutta la mattina. A metà pomeriggio, sembrava stare abbastanza bene. L'effetto dei suoi sedativi era passato e non voleva saperne di restare a letto.

Preoccupata che muovendosi avrebbe danneggiato i molteplici circuiti e le linee arteriose, più un apparecchio CPAP e il porta monitor, ho deciso di tenerlo fermo, stretto a me. Nessuno dei suoi familiari era presente ed aveva bisogno di circa una dozzina di medicinali IV per le prossime cinque ore.

Li ho preparati tutti e li ho allineati sul suo letto. Ho tirato la pompa della siringa che sarebbe stata usata per le medicazioni sul polo IV e ho posizionato il bambino sul letto di fronte a me. L'ho sollevato e l'ho messo sul mio grembo. Per cinque ore l'ho cullato e l'ho tenuto stretto a me. Mi guardava negli occhi, giocava con i miei capelli, cercava di succhiarsi il pollice attraverso i poli IV. Gli ho dato i suoi farmaci uno ad uno fin quando l'infermiera che avrebbe dovuto darmi il cambio non entrò in camera.

Io non sono solo un'infermiera. Io SONO un'infermiera. Posso affrontare un turno lavorativo di dodici ore nel quale analizzo i gas sanguigni confortando un bambino malato pur sempre continuando a monitorare i segni vitali, lo stato respiratorio e gestendo i farmaci. Io sono gli occhi, le mani e i piedi del medico. Non sono inferiore a loro. Non mi alzo in piedi quando entrano in una stanza. Non eseguo i loro ordini, discuto con loro la fisiopatologia delle condizioni del paziente ed insieme troviamo una soluzione. Spesso le soluzioni che propongo sono proprio la strada che intraprendiamo e altre volte invece imparo qualcosa di nuovo. Non mi parlano dall'alto verso il basso; discutiamo delle cose insieme.

Ho avuto un'esperienza questo fine settimana, una delle prime in quell'ambito e sono rimasta sorpresa da quanto arrabbiata e scossa io fossi.
Un amico si è tagliato un braccio e ore dopo cercava ancora di fermare il sanguinamento. Ho valutato la ferita e ho creato pressione avvolgendola con tutto ciò che vi era di disponibile in un casolare di montagna. Ho malvolentieri informato il mio amico che probabilmente la ferita avrebbe avuto bisogno di punti. Non era grande, ma era profonda e se fosse guarita, sarebbe sicuramente guarita male, e anche se non avesse fatto infezione, avrebbe lasciato sicuramente una cicatrice. Non sono una persona alla quale piace mettersi in mostra, percorro solo la strada da seguire.
La mia opinione veniva condivisa, ma un altro ospite, un dottore, pensava che un cerotto fosse bastato a far guarire la ferita senza complicazioni. Poteva avere ragione come potevo averla io. Ma un caro amico di famiglia, che conosco da sempre, intervenne dicendo:
"Senz'offesa Kateri, ma ovviamente stavolta ascoltiamo i consigli del dottore piuttosto che dell'infermiera."
Avrebbe anche potuto dire "sei solo un'infermiera", ma non lo fece.
Mi sono sentita come se mi avessero presa a schiaffi. Il mio caro amico sapeva che questa sarebbe stata la mia reazione e si spaventò quando il mio viso diventò bianco ed iniziai a perdere l'equilibrio. Qualcosa dentro di me affondò.

Il giorno seguente mi sforzavo di capire perché mi sentissi ancora così in collera. Di sicuro non aveva intenzione di ferirmi. Il giorno dopo a pranzo, mentre discutevo del mio nuovo lavoro con la mia famiglia, tutto divenne chiaro. Il mio lavoro è tanto, e tanto di esso è equivocato. E forse la colpa è proprio mia. Sono un'infermiera, alcuni giorni sono difficili, ma sangue e feci non mi spaventano.Ma questo è tutto ciò di cui parlo. Non dico quello che faccio realmente. E nemmeno i media lo fanno. Gli amici infermieri mi aiutano in questo; è arrivato il momento di smetterla di sottovalutarci.
Stamattina mi sono imbattuta in questo trafiletto pubblicitario. L'ho scritto qualche anno fa in onore della Giornata dell'Infermiere, e risulta vero oggi come lo era allora. Forse non sarò un dottore, ma sono un'infermiera. E se nella tua mente non rimbomba altro che la frase "solo un'infermiera", chiedi per favore all'infermiere che conosci meglio quali sono realmente le sue mansioni. Credo ne rimarrai sorpreso.

Sono un'infermiera. Non ho scelto di diventarlo perché non ho superato i test d'ingresso a medicina o perché non ho superato l'esame di chimica organica, ma piuttosto perché era quello che volevo. Lavoro per far si che la dignità dei miei pazienti non venga distrutta a causa di momenti difficili, scelte difficili e situazioni che ti spezzano il cuore. Condivido con loro le gioie della nascita di un bambino e quelle di una malattia miracolosamente guarita; condivido con loro la sofferenza della morte di un bambino salito al cielo troppo presto o di una malattia troppo potente per essere sconfitta. Il mio paziente è spesso un'intera famiglia. Valuto e difendo. A volte tocco il fondo, altre somministro semplicemente i medicinali, ma quello che faccio non si limita a questo.

Ci sono persone al di sopra di me ed altre al di sotto. Lavoro in maniera molto ravvicinata con entrambe; senza di loro non potrei fare bene ciò che faccio. Ho scelto questa professione ed amo quasi ogni minuto di essa. Non sono sola e stimo tutti gli altri infermieri che lavorano accanto a me; molti di loro mi hanno aiutato a diventare ciò che sono.

Quello di diventare infermiera non è mai stato il mio piano B. Era il mio piano A da sempre e lo sceglierei con immenso piacere ancora una volta.

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