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In direzione ostinata e contraria

di Ivana Carpanelli

Spesso il coraggio viene legato ad un modello di violenza: l’accettazione di mettere a repentaglio la propria incolumità fisica nello scontro. Ma il coraggio è ben altro. Convive con la consapevolezza di paura, ma va oltre la paura, perché ci spinge ad agire, in direzione ostinata e contraria.

La paura è frutto del dubbio e dell’insicurezza

Ci sono due tipi di dubbio:

  • alcuni portano con sé un’agitazione che ci stanca e ci confonde. Sono le incertezze legate alle paure interne: che sarà di me se non mi adatto?, cosa penseranno gli altri?
  • altri ampliano la visione di noi stessi e del contesto, ci consentono lucidità, presenza e calma, nonostante l’incertezza. Ci esortano: non domandarti quale bandiera, chiediti invece perché bandiere?!

Chi è capace di coraggio ha dubbi del secondo tipo; non si confonde di fronte ai pericoli, affronta con serenità i rischi, combatte i dolori fisici o morali e affronta a viso aperto la sofferenza, il pericolo, l'incertezza e l'intimidazione. C’è il "coraggio fisico" - verso il dolore fisico o la minaccia di morte - e il "coraggio morale", di chi si contrappone alla vergogna e allo scandalo.

È coraggio anche la capacità di correre rischi per scopi nobili e in questo si distingue da temerarietà e audacia, di chi corre rischi per scopi di poco conto o esclusivamente personali oppure per il piacere del rischio.

È coraggio contrapporsi ad un nulla ben confezionato e alle verità rimaneggiate, che fioriscono quando l’allontanamento da sé è così profondo da condizionare un uso libero della nostra esperienza

Il conformismo è nemico del coraggio, lo attacca da dentro, lo svuota e alimenta una vigliaccheria morale che soffoca l’umanità dell’individuo. Crescono posizioni drastiche verso chi è considerato estraneo al proprio mondo - straniero morale, come ora succede con gli schieramenti geopolitici: dividere gli amici dai nemici, andare contro ciò che consideriamo diverso nasce dalla paura e fa proiettare all’esterno la minaccia alle proprie false sicurezze.

È un atto di codardia morale accettare con indolenza un’autorità “forte” (e manipolatoria) per eliminare il pericolo; al contrario, comprendere quel che si è disposti a perdere per garantirsi la piena autorealizzazione e autorizzarsi a lavorare per il proprio desiderio di ben essere, è un atto di coraggio. 

A livello sociale lo vediamo nella propaganda, nell’istigazione alla ricerca del capro espiatorio, nell’autoritarismo, nell’intimidazione e nella minaccia di punizione per chi non aderisce al sistema imposto. Nell’infanzia ci alleniamo a sopravvivere alla perdita – del grembo materno, del seno, del calore della madre – e ci esercitiamo al coraggio.

Quel coraggio che si disegna nella perdita, necessaria e inevitabile, si ripropone nella crisi, della vita dell’individuo e delle società, quando la propria storia e la propria cultura possono diventare risorse, quando recuperiamo il contatto con la nostra vera natura e ci adoperiamo per superare i nostri schemi mentali, emotivi e sensoriali, che alimentano giochi a somma zero e ci rendono insoddisfatti e confusi. Quando il pensiero divergente, che appare di solito stravagante, che è sempre il contrario del conforme, si rivela culla del coraggio.

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