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Argentina, dove l’infermiere di territorio fa la differenza

di Giordano Cotichelli

Gli scorsi giorni l’Argentina è stata teatro di forti mobilitazioni di piazza che hanno visto migliaia di persone manifestare contro la riforma delle pensioni che verranno rivalutate annualmente su un incremento del 5,7% contro il 14% precedente, a fronte di un’inflazione galoppante del 21%. Una scelta che avrà ricadute non solo sul reddito degli anziani, ma delle loro famiglie, dei loro nipoti disoccupati, della gestione singola o collettiva della cronicità della loro salute. In un paese, del resto, dove la copertura sanitaria non riesce ad essere funzionale ai bisogni di salute diffusi della popolazione.

L’infermiere di famiglia, il territorio e l’esempio dell’Argentina

estaciones saludables

Una delle Estaciones saludables in Argentina

In merito significativa la testimonianza dell’esistenza delle Estaciones saludables, centri sparsi sul territorio, fissi o mobili, utili alla prevenzione sanitaria in relazione alle malattie cronico-degenerative. In questi centri si può fare attività fisica (per adulti e bambini), avere consigli sull’alimentazione e prescrizione di diete e, soprattutto, misurare i parametri importanti per il monitoraggio della sindrome metabolica: glicemia, pressione arteriosa, peso corporeo.

I centri mobili sono presenti anche nelle stazioni della metropolitana e i pazienti anziani, cronici e poveri, vi possono accedere senza pagare il biglietto, ma mostrando semplicemente il tesserino dato loro dal centro. La gratuità della presa in carico non è poca cosa, specie se si pensa, ad esempio, che un semplice stick glicemico, fatto in un centro privato, può costare anche il corrispettivo di 2,5 euro. Se si pensa alla riforma delle pensioni che ne cancella in pratica il potere d’acquisto, al costo della vita nel paese sudamericano, pressoché simile a quello italiano a fronte di salari medi che sono, nel migliore dei casi, la metà di quelli del belpaese, il quadro si presenta abbastanza preoccupante.

Lo scorso settembre, in visita nel paese del Cono sud, ho avuto modo di parlare con le infermiere di un paio di Estaciones saludables le quali mi hanno sottolineato ulteriormente come sia importante la presenza di un professionista dell’assistenza per la presa in carico di pazienti molto spesso lasciati soli a se stessi, senza risorse, incapaci anche di sostenere la semplice compliance terapeutica. Un database di riferimento, email, numeri di telefono, contatti vari consentono alla professionista di relazionarsi continuamente con la persona ed avere il più delle volte un quadro preciso non solo del suo stato di salute, ma della capacità del singolo di potersi autogestire.

Le Estaciones saludables sono un’iniziativa di prevenzione sul territorio, sostenuta dalla Municipalità di Buenos Aires, in un sistema sanitario tripartito (pubblico, privato e assicurazioni) che, come detto, non riesce ad essere funzionale alle esigenze della salute della collettività. Certo questi centri mobili non permettono di agire direttamente sui determinanti della salute e della malattia quali: reddito, alimentazione, abitazione, accesso alle cure ecc…, ma consentono la costruzione di una rete relazionale assistenziale di riferimento che non lascia scoperto il territorio sul piano sanitario in generale, ed infermieristico in particolare.

Interessante la chiave di lettura che un documento dell’Icn, International Council of Nurses, del 2011, dal titolo “Closing the gap, increase access and equity”, fornisce in relazione all’importanza della presenza dell’infermiere sul territorio. Qui viene portato l’esempio del tirocinio ulteriore di sei mesi da espletare lungo le strade delle città per prestare assistenza ai vagabondi, agli homeless, a chi ha problemi di disagio psichico o di dipendenza, insomma a chi è stato cacciato ai bordi della società e della vita. Un approccio professionale e scientifico che pone in primo piano la salute e la persona e denuncia di converso quei comportamenti che, di fronte alla sofferenza, si preoccupano maggiormente del decoro urbano, ritenendo più facile nascondere la polvere sotto il tappeto – spostare via dal centro di una città i poveri – piuttosto che affrontare i problemi. Questione troppo complessa da poter essere affrontata con qualche semplice battuta. Di certo però mostra come il ruolo della professione infermieristica, in una prospettiva di cambiamento, si apre a letture del bisogno in contesti ampi rispetto al passato. Si proietta sul territorio e nella comunità e fuoriesce dagli spazi angusti e disfunzionali della sola assistenza ospedalo-centrica, ma fa dei contesti socio-economico di vita i luoghi di lettura degli interventi.

Non è un caso che si sono moltiplicati, anche in Italia, i corsi post-laurea di infermieristica del territorio. Proprio qualche giorno fa ne è stato attivato uno presso la Facoltà di Medicina di Ancona per l’infermiere di famiglia e di comunità. Figura che potrà essere specializzata del servizio di assistenza domiciliare, peraltro già attivo da più di un ventennio, o del modello dell’ospedalizzazione domiciliare, del lavorare in équipe o del rappresentare una professionalità utile all’accesso ai servizi e alle prestazioni, alla presa in carico e all’empowerment, direttamente nei luoghi di vita. In una parola si può affermare che l’infermiere di famiglia e di comunità potrà essere una ulteriore risorsa del sistema e della professione per la riduzione delle disuguaglianze nella salute. Qualcuno ha detto che l’infermiere di famiglia sarà, sul piano dell’assistenza, quello che è rappresentato sul piano della medicina dal medico di famiglia. Non è dato sapere se sarà realmente lungo questa prospettiva, di certo il cambio di paradigma della cura e dell’assistenza è un dato di fatto e cerca, non senza difficoltà, di farsi sistema. Non a caso sempre nell’ateneo dorico qualche settimana fa è stato attivato un altro master, multidisciplinare, in medicina narrativa, strumento, forse più teorico che non meramente organizzativo, utile però ad una interpretazione del bisogno di salute che sia in grado di superare le rigidità definitorie del passato, di un equilibrio in continuo pericolo, e che sappia essere letto in termini di resilienza nei confronti di malattie che sempre più diventano quotidianità del vivere individuale e familiare.

Alla fine sembra strutturarsi quella figura di infermiere fuzzy – indefinito – teorizzata negli ultimi anni dalla letteratura infermieristica anglo-americana, che rompe la gerarchia dell’intervento prescrittore e direttivo, della malattia e delle istituzioni totali dei luoghi di cura e torna sul territorio, in un contesto diffuso, fluido (del resto siamo nella società liquida di Bauman) relazionale, ritrovando il ruolo di professionista della comunità come già curandere e medegùn, guaritrici, levatrici ed erbuari in passato, sostenevano, con una prospettiva amplificata rispetto a quanto già svolto dai servizi territoriali quali quelli relativi all’assistenza domiciliare. Di fronte a tutto questo l’infermiere di famiglia, in un contesto di servizi in cui sia libero di essere autonomo e attivo, soggetto alla pari di altre professionalità, non farà altro che svolgere il suo ruolo assistenziale con l’ulteriore capacità di poter leggere la complessità, la privazione, l’isolamento. Lo farà da professionista, in primo luogo, e da cittadino poi, ed ancora come caregiver e utente, vivendo una pluri-soggettività di ruolo che lo chiama però come professionista ad essere protagonista del cambiamento, fuoriuscire da spazi autoreferenziali di rivendicazione, ed essere consapevole che la morte per assideramento di un vagabondo non è un problema di decoro urbano, o il taglio delle pensioni non è una questione degli anziani o, peggio, i continui appelli alla trasformazione dell’universalismo del sistema sanitario nazionale lungo una prospettiva di mercato e di assicurazioni. Non è qualcosa che ci può o ci deve lasciare indifferenti e inattivi.

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