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Ucraina

Dal cielo, dalla terra e dal mare

di Monica Vaccaretti

Mi rendo conto che ho perso il conto dei giorni di guerra. Oggi, dopo 229 giorni dalla prima alba di bombardamenti su Kiev lo scorso 24 febbraio, missili bombe e droni kamikaze sono caduti, come pioggia, su strade palazzi e parco giochi della capitale ucraina. La gente è tornata a rifugiarsi sottoterra, nella metropolitana, per proteggersi dal massiccio attacco dal cielo, dalla terra e dal mare. Le sirene di allarme hanno suonato in tante regioni del Paese del grano e in tante città già devastate, da Leopoli a Zaporizhzhia.

Ogni giorno un infermiere resta al suo posto, anche se cade tutto a pezzi

Non c'è niente di più destabilizzante di una guerra, per la testa di un uomo. Ci fa perdere tutto.

Sembrano lontani i primi giorni dell'invasione russa e sembrano dimenticati i primi orrori di Bucha. Le fosse comuni, i forni crematori, le torture e le esecuzioni di massa, i carri armati ci hanno fatto ripiombare nella devastazione della Seconda Guerra Mondiale.

Duecentoventinove giorni sono quasi 8 mesi ma raccontarli giorno dopo giorno e minuto per minuto appaiono lunghi come anni. Ci siamo emozionati, inorriditi, abbiamo anche pianto. Ora dove è finito quel sentimento di umanità? Il mondo va a rotoli tra gasdotti marini nel Mar Baltico e ponti sul Mar Nero fatti saltare con il tritolo, tra recessione economica globale epocale e minaccia di olocausto nucleare. La mobilitazione dei civili russi e la loro fuga ai confini finlandesi e georgiani ci ha fatto ricordare che una chiamata alle armi della popolazione non avveniva dal 1940. L'ora più buia.

L'opinione pubblica fuori dall'Ucraina sembra essersi abituata al conflitto nel cuore del continente. Sta capitando come per la pandemia, ci viene raccontato tutto ventiquattro ore al giorno, l'informazione ci sembra eccessiva ed ossessionante e le persone, ad un certo punto, se ne allontanano. Si staccano dalla narrazione. Semplicemente vivono, in equilibrio precario, nel più sereno modo possibile in questo mondo il loro giorno dopo giorno.

Per un sano meccanismo di difesa, vanno avanti. Con i loro sogni e le cose belle della vita. Del resto, è facile: sembra una cosa in televisione, reale ma lontana, fintanto che resta là. Gli effetti a lungo termine e a lungo raggio inizieremo a sentirli il prossimo inverno, dicono. Qui la vita sembra normale, si va in vacanza e a divertirsi, come in tempo di pace. Laggiù si combatte, si muore. Sono senza riscaldamento, elettricità, beni di prima necessità. E allora penso che un po' di freddo possiamo patirlo anche noi, per solidarietà o a causa delle sanzioni. Un po' di sobrietà, riducendo i nostri eccessivi consumi, non ci fa male. Ma bisognerebbe avere un welfare adeguato a sostenere le nuove povertà scatenate dalla crisi.

Non c'è niente di più schifoso di una guerra, ha dichiarato il Pontefice allarmato per l'umanità. Se il silenzio delle nostre coscienze è invece legato all'egoismo e all'indifferenza allora è altrettanto schifoso. Sembriamo inebetiti di fronte alla tragedia che stiamo vivendo. Forse l'impotenza verso gli eventi o l'incredulità che stia capitando ancora, dopo settant’anni di pace, ci rende tutti anestetizzati.

Allontaniamo il pensiero dell'orrore non riuscendo ad accettarlo e continuiamo a vivere il nostro quotidiano come se niente fosse. Del resto, anche la resilienza ha una fine, un limite di sopportazione. Tutte le crisi possibili, per molti inimmaginabili anche se prevedibili, ci stanno travolgendo, da quella energetica a quella alimentare sino a quella sanitaria, non ancora risolta. Sembra un allineamento di sventure.

Le bollette quadruplicate di famiglie e di imprese, la ripresa dei contagi, la vaccinazione di massa ferma al palo. Si parla al tg di guerra nucleare all'ora di cena, con i bambini attorno al tavolo, dissertando sulla differenza tra testate atomiche tattiche e strategiche. Ovvio che si va fuori di testa, a ben pensarci. Ben che vada viene un attacco d'ansia e d'insonnia, se pensiamo alla salute mentale. Abbiamo tutti bisogno del bonus psicologico.

Del resto, è anche doveroso sapere come vanno le cose nel mondo. Al di là dell’infodemia bisogna pur parlarne, non si tratta di fare intrattenimento da Grande Fratello.

Parlare di questa guerra e far vedere ciò che succede, grazie ai reportage spesso crudi e realistici dei giornalisti sul posto, non è talk show per fare sensazionalismo. È guardare in faccia la realtà, io credo. Se l'orrore capitasse qui, vorremmo certamente che il resto del mondo sapesse e venisse a salvarci. So soltanto che quando capitano questi conflitti globali il mondo è nelle mani dei potenti che ci governano.

È geopolitica. Sento soltanto che ogni volta che vedo quelle immagini non posso fare a meno di pensare che sono persone come me, quelle sotto le macerie. Quelle insanguinate sedute sull'erba del giardinetto pubblico di Kiev, dopo il missile caduto all'incrocio. Quelle senza vita, pietosamente coperte da coperte con le frange di lana o dalle metalline gialle dei mezzi di soccorso, lasciate sulla strada piena di detriti.

E come infermiera so soltanto che dopo ogni missile che cade ci sono infermieri ucraini che accorrono per salvare, curare, portare via verso ospedali colpiti come obiettivi militari. Ne vedo uno che fascia con bende le gambe martoriate di una donna, seduta sull'ambulanza. C'erano senz'altro infermieri arrivati sul posto dopo il missile su quella strada con le auto della colonna umanitaria che cercava di lasciare la città. Le schegge hanno lasciato tutti come li ha lasciati il loro ultimo istante.

Sono scene difficili da sostenere nello schermo, dal vivo deve essere psicologicamente devastante. Ti spezza. Ci sono sanitari dentro e davanti ad ogni orrore di questa schifosa guerra. È vero, siamo umanamente stanchi di tutto questa bruttezza. Siamo tutti stanchi di tutti questi problemi, che ogni giorno ce n'è una di nuova. Ma possiamo anche immaginare e pensare quel che capita, ogni volta che la cronaca ci racconta il nuovo giorno di conflitto. Le immagini e le parole rendono soltanto tutto più forte, maledettamente vero e vicino.

Domani è il 230° giorno, non solo in Ucraina. E altri infermieri faranno gli infermieri di guerra - come i giornalisti che ce la raccontano - in missione in casa loro, tra le case della loro gente, lungo le strade che portano a casa. E allora mi vien da pensare che finché non abbiamo visto e vissuto la guerra, come i nostri colleghi al fronte, doppiamente, come persone e come professionisti, risulta difficile lamentarsi ancora di qualcosa del nostro lavoro nel nostro Paese.

Della paga non degna della professione. Del rinnovo contrattuale in ritardo. Del turno di notte, che nessuno vuole farlo più. Del fastidio dei tamponi di screening. Della mascherina. Della pandemia. Della stanchezza. E ci si licenzia. Si cambia mestiere. Non ce la facciamo più. Forse invece bisogna restare. Per fare la differenza. Per migliorare il nostro sistema sanitario. E un pezzo di mondo.

Dobbiamo dirci la verità. Non c'è niente di più destabilizzante di una guerra, per la testa di un uomo. Ci fa perdere tutto. E nonostante questo in Ucraina ogni giorno un infermiere resta al suo posto, anche se cade tutto a pezzi. Dal cielo, dalla terra e dal mare.

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