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L'infermiere penitenziario, tra assistenza e problema sicurezza

di Rosario Scotto di Vetta

La domanda sull’identità dell’infermiere e su quello che può dare è sottesa, ma chiara. Questa stessa domanda se la pongono in primis gli stessi infermieri che lavorano nelle carceri: cosa si può davvero fare per i bisogni sanitari delle persone detenute e come farlo al meglio? Dopo un lungo iter legislativo, avviato alla fine degli anni 90 con il d.lgs. 230/99 avente per oggetto il “Riordino della Medicina penitenziaria” e conclusosi con il DPCM 01/04/2008, si è stabilito il passaggio della competenza in materia di salute al Servizio Sanitario Nazionale, lasciando all’Amministrazione Penitenziaria il compito di provvedere alla sicurezza dei ristretti.

Assistenza in carcere: La posizione dell'infermiere penitenziario

L'infermiere penitenziario è spesso considerato un corpo estraneo all'interno di un'organizzazione molto rigida

La legge pone una separazione tra la gestione della sicurezza e il diritto alla salute che spetta ai detenuti come ai cittadini liberi e consolida l’orientamento già previsto dall’articolo 27 della Costituzione ad un lavoro sinergico tra le Istituzioni con il fine comune del reinserimento e del recupero del detenuto. Allo stesso spettano il diritto alla salute secondo i livelli essenziali di assistenza riconosciuti ai cittadini liberi e il diritto all’assistenza, alla prevenzione, alla riabilitazione attraverso prestazioni adeguate ed efficaci. Il carcere apre i suoi alti cancelli al Servizio Sanitario Regionale Pubblico lasciando però da definire l’integrazione in un contesto rigidamente controllato da vincoli e regole proprie al fine di creare le giuste sinergie di lavoro.

La storia degli infermieri penitenziari come gruppo, con una propria disciplina professionale, non ha un passato remoto. Uno dei problemi fondamentali legati al suo recente inserimento è proprio la definizione dei fenomeni che costituiscono il suo territorio di interesse specifico ed autonomo, così come gli strumenti di lavoro voluti dalla legislazione ed in grado di garantire qualità e sicurezza (D.M. 14 settembre 1994 n°739, n°251 10/8/2000, Codice deontologico). A tutto ciò si somma il problema che la privazione della libertà, l’impossibilità di soddisfare il naturale bisogno di privacy, di autodeterminazione e sicurezza, creano una situazione del tutto anomala nella persona ristretta.

Gli spazi limitati e i tempi ristretti concessi dai ritmi di lavoro intenso e dall’organizzazione sanitaria e penitenziaria per il contatto con il detenuto impongono agli infermieri la necessità di ridefinire i modi e i metodi per l’uso dei processi deduttivi dell’atto assistenziale. Il problema della sicurezza non è mai da sottovalutare all’interno di un carcere, ma piuttosto diventa di urgente importanza dati i noti indici di sovraffollamento. Risulta prioritario trovare una sinergia operativa che stabilisca una giusta relazione tra regolamenti penitenziari e processi assistenziali adeguati e di comprovata efficacia. L’infermiere è la figura che entra più frequentemente nelle sezioni e incontra i detenuti nelle loro celle per la somministrazione delle terapie.

La malattia viene strumentalizzata e la capacità di lettura obiettiva della situazione di salute è ostacolata dalle simulazioni volte a ricercare un espediente per una riduzione della pena. Le malattie più rappresentate in cui vengono sollecitati interventi preventivi urgenti dettati da esigenze di sanità pubblica sono: tubercolosi, HIV, epatiti, sifilide e altre malattie sessualmente trasmesse.

La maggior prevalenza di disturbi psichiatrici in cui il 10-15% della popolazione detenuta soffre di una malattia mentale grave, risulta da molti studi, sebbene non sia chiaro se la detenzione causi il disordine mentale o peggiori una situazione patologica preesistente. Gli ambienti chiusi e angusti dei “bracci” di reclusione creano una difficoltà logistica che spesso compromette la possibilità di cura, e definiscono un disagio adattativo condiviso anche dagli infermieri, che lamentano infatti maggiori difficoltà in carcere rispetto ad altri contesti di lavoro.

Secondo una relazione degli infermieri del carcere romano “Regina Coeli”, le difficoltà vissute non hanno impedito di formulare linee guida e protocolli che prevedono il coinvolgimento degli agenti di polizia penitenziaria. La collaborazione è riconosciuta come indispensabile perché gli assistenti sono a contatto stretto col detenuto e possono rendersi veicolo di informazioni per il monitoraggio della situazione sanitaria.

Gli infermieri sono considerati come un “corpo estraneo” dentro un’organizzazione rigida che ha proprie regole e dinamiche, funzionanti perché da tutti riconosciute e accettate. L’infermiere risente della mancanza di conoscenza sul complesso sistema che lo sovrasta e, talvolta dei regolamenti penitenziari scritti e non scritti che tutti gli operatori sono tenuti a osservare (d.lgs. 14230, DPR 230/giugno 2000). Vi sono linguaggi formali e informali specifici da imparare, sul campo, per poter comunicare e l’abitudine agli ambienti chiusi, alle sbarre, ai cancelli non è scontata né immediata.

Il cammino è forse appena iniziato ma è sempre più condivisa l’esigenza di un percorso comune che, nel rispetto delle singole competenze, metta insieme le proprie risorse per la buona gestione della complessa situazione della reclusione.

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