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Un film di Ken Loach per la sanità che verrà

di Giordano Cotichelli

Nel 2016 è uscito nelle sale, ottenendo successivamente la Palma d’oro al Festival di Cannes, il film di Ken Loach: “Io, Daniel Blake”.

Il protagonista è il sistema sanitario inglese, malato terminale

Con la solita vena narrativa, vicina agli ultimi, il regista scozzese, racconta la storia di un carpentiere, che viene colpito da una cardiopatia non grave, ma per la quale deve stare a riposo almeno un paio di mesi. L’assenza dal lavoro diventa funzionale a far recuperare salute al cuore affaticato. Purtroppo però l’indennità per malattia non è automatica, ma deve essere autorizzata, a livello burocratico, da un soggetto diverso dal medico specialista. Un soggetto “terzo” che attraverso un suo operatore sanitario, viene definito nei primi frame del film – incaricato di compilare un questionario e dare un punteggio alla malattia. Se il risultato è superiore a 15, il carpentiere ha diritto all’indennità, altrimenti nulla. Dan accumula, con le risposte al questionario, e non tanto con i referti della sua patologia, 12 miseri punti, ritrovandosi così nella scelta di dover tornare al lavoro e veder peggiorare la sua salute, oppure assentarsi dal lavoro senza però percepire alcun reddito.

Un’assistente sociale gli suggerisce di fare ricorso contro la decisione di privarlo dell’indennità di malattia e, mentre aspetta, chiedere l’indennità di disoccupazione. Il problema però sta nel fatto che non può far ricorso finché non ha ricevuto la telefonata del responsabile dell’agenzia che gli ha negato la malattia. Ma ho ricevuto già la lettera!, è l’osservazione di Daniel. Gli viene risposto che solo dopo la telefonata potrà avviare la pratica, e che questa arriverà … quando arriverà! Inizia così un’odissea fra burocrazia, chiusure, funzionari, rigidità formali, regolamenti e complicazioni di ogni sorta che porteranno il protagonista a dover rinunciare anche all’indennità di disoccupazione dato che non è in grado, nonostante la sua buona volontà, di seguire i rigidi programmi di reinserimento lavorativo legati alla percezione dell’indennità.

Nonostante la follia totalizzante in cui viene precipitato il protagonista, fino alla fine questi non si perde d’animo e combatte per affermare sia il suo diritto a essere un malato e a essere curato, sia di essere un lavoratore che ha in mano un sapere e una pratica che non possono essere né umiliati né cancellati da qualsivoglia sussidio forzato. Non solo. All’interno della narrazione si intrecciano altre storie di vita e di disperazione sociale in cui prevale, tipico del cinema di Ken Loach, il filo conduttore di una solidarietà fra gli ultimi che fuoriesce da qualsivoglia protocollo istituzionale. Solidarietà che aiuta a tirare avanti, che restituisce dignità alle persone, che grida la loro voglia di vivere. Alla fine Dan verrà chiamato per partecipare all’udienza per il ricorso, fatto per riavere la sua indennità di malattia, in un finale degno del grido di speranza, che Ken Loach ha sempre regalato ai suoi spettatori; anche se questa volta il soggetto della storia e il contesto sono abbastanza peculiari. Non è la Spagna libertaria del ’36 o l’Irlanda rivoluzionaria dell’indipendenza, la voglia di lavorare di un ex-galeotto o l’utopia dell’amore fra appartenenti a culture diverse.

Questa volta il vero protagonista del film è il sistema sanitario inglese: folle, sofferente e malato terminale di una utopia del welfare che sembra definitivamente annientata. L’indennità di malattia non è più un diritto. Il reddito di disoccupazione precipita i meno fortunati in una trappola della povertà, che difficilmente riesce a vedere un futuro diverso da quello di elemosinare un lavoro senza alcuna dignità, senza alcun futuro. È un grido di dolore più che di allarme quello che il regista scozzese solleva attraverso le immagini del film, cui si accompagna, nella realtà, un peggioramento delle condizioni sociali e sanitarie degli abitanti del paese, che ha dato i natali alla sanità pubblica e gratuita, al modello universalista di Beveridge, all’infermieristica contemporanea, alla lotta alla povertà.

Gavino Maciocco nella sua rivista online “Salute internazionale”, ha scritto un editoriale, proprio pochi giorni fa, dove sottolinea come il medico di medicina generale nel Regno Unito venga sempre più messo in condizioni di non essere un gatekeeper, un guardiano della salute del singolo e della collettività, e come questo diventi un ruolo “altro” delegato a società terze. Società, come ha raccontato Loach, abili ad istruire operatori per redigere questionari da compilare, a cancellare i malati, ma non le malattie. Un tempo, si sarebbe auspicato il contrario.

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