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Studenti Infermieri, quando la morte di un paziente cozza con l'assenza di un supporto psicologico

di Redazione

infermiere burnout

A Genova l'esperienza di alcuni discenti che spesso vengono lasciti soli di fronte a quello che potrebbe essere un trauma sottovalutato. Ce ne parla Deborah Romano, nuova Nursereporter...

GENOVA. Sono iniziate recentemente le lezioni del Primo anno del Corso di Laurea in Infermieristica; da poco trecentocinquanta ragazzi hanno varcato le soglie dell’università per imparare una professione. Li, tra lezioni di anatomia e infermieristica immaginano come sarà il reparto, come sarà approcciarsi con un malato che vedranno da lì a sei mesi.

Reparti di medicina, neurologia ed RSA come prime destinazioni dove si riesce ad apprendere molto, dove vi vedono molti anziani affetti da poli-patologie.

Si iniziano a conoscere i primi pazienti, i primi parenti e si creano i primi legami.

I legami più stretti molte volte si creano con i pazienti terminali e con la loro famiglia. Si ritrova il bisogno di stargli accanto, entrare in empatia completa con loro ed a non pensare mai che potrebbe succedere qualcosa da un momento all'altro.

Il primo anno siamo preparati al concetto di morte in modo teorico prima del tirocinio. Se ne parla ma pochi l’hanno vissuta sulla “propria pelle” e non sempre si ha la forza di affrontarla nel migliore dei modi.

In reparto, le prime esperienze posso avere un impatto davvero molto forte e a volte la teoria non basta e i sentimenti che si provano sono abbastanza disorientanti.

Molte volte, il personale sanitario che si ritrova nei reparti di degenza è abituato a questa realtà e potrebbe non dare peso al fatto che per lo studente potrebbe essere la prima volta.

Le emozioni che possono provare i ragazzi sono molteplici e variano a seconda del carattere dello studente stesso. È un’esperienza che permette di crescere ma non esiste ancora una figura all'interno delle strutture ospedaliere che possa offrire un supporto psicologico allo studente che affronta questo avvenimento.

La mancanza di supporto professionale però, fa sì che lo studente inizi a creare un rapporto di sostegno con gli altri membri del suo corso di laurea in modo da confrontarsi e trovare persone di fiducia con cui fare “team” e superare questo e altre sfide che il percorso riserva.

Alla fine del tirocinio, i nostri tutor ci richiamano e ci fanno raccontare le esperienze e l’emozioni provate durante la permanenza ma, le persone emotive, potrebbero non avere la forza di parlarne davanti a tutto il gruppo per paura di essere giudicati più deboli rispetto agli atri.

Non sarebbe più giusto avere una figura di riferimento che dia fiducia e che invogli i ragazzi a parlare per ogni struttura?

La mia personale esperienza mi riporta alla mentre soprattutto un caso in cui il paziente era già deceduto. Non sapevo bene cosa fare in quel momento, ero un po’ disorientata ma fortunatamente l’infermiera con cui ero mi ha chiesto se riuscivo a stare con lei in quel momento e se volevo aiutarla a preparare il paziente. Non mi ha fatto andare via e non mi ha neanche obbligato a restare. È stata una mia scelta restare e con la possibilità di scegliere sono riuscita a restare ed ad affrontare la situazione. Probabilmente sarebbe stato diverso se io avessi creato in precedenza un rapporto di confidenza con il paziente o se non avessi avuto il supporto dell’infermiera che ha capito le mie emozioni.

Se non fosse stato così, se non ci fossero stati dei miei compagni di corso con cui confrontarmi a chi avrei potuto rivolgermi?

di Deborah Romano

Studentessa Terzo Anno Corso di Laurea in Infermieristica - Università degli Studi di Genova.

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