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Editoriale

Gli ospedali sono luoghi di cura e di aggressione

di Monica Vaccaretti

Morire per aggressione. Essere colpiti alle spalle, con furia ed inganno, mentre si è inginocchiati a togliere il lucchetto alla bicicletta, prima di salire in sella per tornare serenamente a casa tra le vie di Pisa. Morire così, a fine turno, dopo una giornata passata in reparto, pronta per tornare il giorno dopo a fare bene il proprio dovere. Morire, non subito, ma stramazzare al suolo tramortita e fracassata con una spranga, tra il proprio sangue ed il proprio silenzio. Non c'è stato il tempo di un'ultima parola, né di uno sguardo di sgomento, di stupore o di paura posato o lanciato sul volto del suo aggressore. Lo avrebbe riconosciuto, avrebbe saputo per mano di chi sarebbe morta di lì a poco, anche se non sarebbe servito a niente saperlo, soltanto dare un senso o un perché al suo ultimo istante.

È così che muore un medico, oggigiorno, per mano di un paziente

Avere consapevolezza della propria vita e della propria morte è un diritto che spetta ad ogni persona. Nessuna possibilità di difendersi, di alzare una mano per proteggersi il capo. Nessun urlo per chiedere aiuto. Nessuna chance di fuga e di mettersi in salvo. Forse gli occhi erano ancora rivolti a terra, sulle chiavi tra le dita per liberare la ruota dalla rastrelliera. L'ultimo movimento fine prima di cadere.

Rubano le biciclette persino in ospedale, non si è liberi dai furti neppure nei cortili interni, sotto il proprio reparto è il pensiero che viene in mente ogni qualvolta capita di armeggiare attorno al telaio cercando un palo. Forse lo ha pensato un'ultima volta anche lei. Forse sorrideva pensando al riposo della sera, ad un appuntamento felice nel fine settimana.

Le hanno rubato invece la vita, mentre la testa ancora pensava ad altro, fintanto che ferocemente veniva pestata. Alle consegne appena date ai colleghi, ad una commissione da sbrigare per strada rientrando a casa, alla cena da preparare, a quella cosa importante da ricordare al marito, a quell'impegno con i figli, alle cose belle da fare insieme alla famiglia il 25 aprile.

Invece ci si ritrova ad agonizzare, senza più coscienza di sé e del mondo che c'era fino ad un attimo prima, quando il cielo stava ancora sopra la testa e i capelli erano al vento, puliti. Essere soccorsa dai colleghi, mentre si è quasi senza vita sull'asfalto. Finire disperatamente in sala operatoria per tentare di essere salvata è tutto ciò che resta ad un medico e ad una donna. Fino alla dichiarazione della morte cerebrale e alla donazione degli organi. Per la brutalità delle percosse e la gravità delle lesioni riportate, la speranza di sopravvivenza era quasi nulla.

La psichiatra Barbara Capovani, Direttore del Dipartimento di Salute Mentale della Asl di Pisa, è deceduta poche ore dopo la vile aggressione di cui è stata vittima lo scorso venerdì presso l'Ospedale Santa Chiara di Pisa.

L'assassino è Gianluca Paul Seung, un giovane che era stato in cura dalla dottoressa, che gli aveva diagnosticato un disturbo della personalità. Era noto che il paziente si fosse reso responsabile di aggressioni ad altri medici toscani negli anni scorsi. Su di lui pendevano infatti quattro provvedimenti giudiziari, ma secondo il sistema penale italiano non si può procedere in giudizio se il soggetto – nonostante ripetuti arresti e denunce - viene considerato non punibile, anche per un reato violento, in quanto ritenuto non in grado di intendere e di volere, anche parzialmente.

Essendo stati chiusi gli ospedali psichiatrici giudiziari, non c'è posto per tutti nelle Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) istituite per prendere in custodia e in cura persone non sane, socialmente pericolose. E così l'uomo era, come si dice in gergo poliziesco, a piede libero e libero di uccidere, se gli girava male e non gli bastavano gli sfoghi violenti verbali con cui riempiva i social media.

È così che muore un medico, oggigiorno, per mano di un paziente, ora accusato di omicidio premeditato. Dalle indagini è emerso che l'aggressore si era appostato per l'agguato mortale anche il giorno precedente ma la dottoressa non era presente in reparto, scampando così all'incontro.

Come documentato dalle telecamere di sorveglianza, l'uomo ci ha riprovato il giorno successivo, in abiti scuri e mascherina sul viso per non farsi riconoscere. E con spranga, dentro un ospedale, difficile da nascondere. Gli inquirenti lo avevano espulso dalla città qualche mese fa con un foglio di via, non poteva fare rientro a Pisa. Carta straccia. Ci è tornato con la spranga in saccoccia.

Nel 2020 è stata approvata una legge (L.113/2020) che prevede un aumento delle sanzioni penali in caso di violenza al professionista sanitario ed è stato istituito un Osservatorio per monitorare il dilagante fenomeno.

Fintanto che si osserva e si lascia liberi di aggredire e di restare impuniti, qualcuno muore liberando la ruota per tornare nel posto più sicuro, casa propria, dopo essere stati per tutto il giorno e per una vita intera in un posto altrettanto sicuro, quello di cura degli altri.

Gli ospedali sono diventati luoghi abituali di aggressione. Tra poco si dirà che è pure normale. Che fa parte del mestiere, prenderle.

Non sempre si tratta di assassini con una diagnosi di disturbi mentali. Chi fa violenza, anche soltanto con le parole e senza spranga ben stretta in pugno, è sempre un soggetto con un disturbo o uno squilibrio psichico, anche se dura l'attimo di una rabbia cieca e sembra una persona normale.

Chi alza le mani e la voce, non ha giustificazioni. E se a colpire è un paziente, allora occorre tutelarsi doppiamente. L'aggressione in servizio, fuori dal reparto ma ancora all'interno di una struttura sanitaria, non è prevedibile.

Difficile pensare a misure di sicurezza, è come trovarsi già fuori senza divisa ma essere riconosciuti dall'aggressore che per qualche motivo nutre rancore nei confronti dell'aggredito. Per una lista di attesa troppo lunga. Per la percezione di non essere trattati e curati nel modo che ci si aspetta. Per non avere tutto subito e come si vuole. Per una parola scortese, magari rivolta soltanto per stanchezza o esasperazione. Per la fermezza con cui si devono fare rispettare regole, procedure assistenziali e tempi di cura che il paziente o i familiari non capiscono o non sopportano.

Si resta soli ed indifesi. Con un lucchetto in mano. Fermi, arrestati in quel gesto quotidiano che fanno molti operatori sanitari che si recano al lavoro sulle due ruote perché si abita generalmente vicino al nosocomio, il parcheggio non si trova o si fa prima ad arrivare e ad andarsene.

Il camice bianco, la gentilezza nella relazione, l'educazione professionale, la competenza dimostrata non bastano più a proteggere e a fare da scudo, perché si sta diffondendo un’insana violenza generalizzata, piena di mancanza di rispetto e di intolleranza verso qualsiasi forma di autorità, che il disagio mentale scatenato dal vissuto della pandemia ha soltanto aggravato, rendendolo più evidente.

Cedono anche i più forti e coraggiosi

Il caso del primario di Pisa suscita grande sdegno ed immenso dolore, ma sono davvero troppi i casi di cronaca che raccontano violenze sugli operatori sanitari in tutta Italia. Soltanto nella mia città nelle ultime settimane una dottoressa è stata strangolata da un familiare di un paziente del pronto soccorso, ha avuto salva la vita grazie al tempestivo intervento dei colleghi e delle forze dell'ordine.

E una dottoressa medico di medicina generale ha deciso di chiudere il suo ambulatorio dopo aver ricevuto per posta un proiettile, oltre a ruote dell'auto ripetutamente bucate e a minacce verbali. L'ultimo bossolo ha fatto traboccare il vaso di Pandora. Cedono anche i più forti e coraggiosi, quelli che credono nella propria professione.

Rapide riforme, luoghi di lavoro più sicuri, umanizzazione delle cure è quanto richiede il Presidente della Federazione nazionale degli Ordini del Medici, Filippo Anelli, alla luce del drammatico episodio pisano. Non permettere che sia il camice bianco a negare le prestazioni che il sistema non riesce a garantire. La sicurezza dei sanitari deve diventare una priorità, ha dichiarato il Ministro della Salute Schillaci.

Forse manca qualcosa alla legge 113 che deve essere ancora pensato e fatto per prevenire e contrastare il fenomeno della violenza sugli operatori. Certamente bisogna agire sulla cultura sociale, oltre che sulla giustizia dopo che il reato si è compiuto. È in atto diffusamente qualcosa che le campagne di comunicazione contro la violenza non hanno la forza di arginare e fermare.

La giornata nazionale del 12 marzo, di educazione e prevenzione contro la violenza verso la categoria, evidentemente non basta anche se i messaggi talvolta hanno bisogno di tempo per sedimentare in un tessuto sociale per cambiarlo.

Quando si va oltre un certo limite inaccettabile, quando la violenza diventa infame ed aberrante, quando i casi non sono sporadici ma si ripetono con una certa inquietante costanza, bisogna trovare delle risposte e delle soluzioni non semplicistiche oltre che a farsi delle doverose domande. Il diritto alla sicurezza dell'operatore sanitario deve essere garantito tanto quanto il diritto alla salute del paziente, che soffra o meno di turbe psichiatriche.

Se i tempi sono questi, forse è arrivato il momento di dire che prima di chi deve essere curato occorre mettere, in un posto sicuro e diverso, chi cura. Ne vale della vita, se ci viene lasciata. Della salute fisica e mentale che ci rimane, dopo un'aggressione.

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Commenti (1)

sandra.bellinelli

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1 commenti

no comment....

#1

certo che per essere uno incapace di intendere e volere, se l'era preparata bene! ah Basaglia, che danni hai fatto!