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Siamo esseri emozionali

di Monica Vaccaretti

Siamo esseri razionali che talvolta si emozionano? O siamo esseri emozionali che cercano di essere ragionevoli? Sono interrogativi, tra scienza e filosofia, da seconda pasqua, quella ortodossa sfalsata di una settimana da quella cattolica. Da terza pasqua di pandemia e pasqua di sangue, senza tregua né per il virus né per la guerra.

Sentire e pensare si misurano con lo stesso parametro vitale

Noemi è stata un'infermiera senza esserlo veramente

L'abilità intellettiva e la capacità di emozionarsi ci rendono inequivocabilmente umani, ma penso che siamo sostanzialmente esseri emozionali perché ci emozioniamo al di là di ogni ragione e senza ragionevolezza. Siamo fatti di emozioni, ci entrano dentro e le lasciamo andare fuori. Ci emozioniamo di fronte alle immmagini, ai gesti, alle parole, ai sorrisi. A qualcuno che nasce. A qualcuno che muore.

Ci emozioniamo di fronte alle storie che ascoltiamo, perché le storie sono persone che incontriamo. Ci emozioniamo davanti alle scene di orrore che vediamo dal fronte di guerra così come davanti alla paura che abbiamo provato in lockdown. L'emotività sarebbe irragionevole se fossimo esseri razionali, sarebbe vissuta come una debolezza, perché la ragione non sa che farsene delle lacrime del sentimento che invece ci governa.

L'intelletto ci serve per mettere ordine tra le emozioni e dare riposo alla testa quando il sentimento supera una certa misura che ci fa perdere il senso. È l'amigdala, nel lobo temporale, infatti a gestire le emozioni. L'emozione non si può pensare, si può solo sentire. Tuttavia basta il pensiero di qualcosa o qualcuno, talvolta, ad emozionarci.

Penso che la mente sia il posto dove ha sede non soltanto la ragione, ma anche il sentimento. E che l'anima alberghi nella mente, come lo stato di coscienza. Il cuore è soltanto un organo pulsante, una pompa meccanica per tenerci in vita. Quando la vita se ne va, è la coscienza a spegnersi. È la mente che smette di essere vigile, energia, pulsione elettrica, sinapsi. Siamo fatti di luce. Anima e coscienza sono per me sinonimi.

Forse sentire e pensare si misurano con lo stesso parametro vitale, la frequenza e l'intensità con cui lo facciamo. È la testa poi l'ultima ad andarsene da questo mondo, quando il cuore cessa di battere. Morire è come svenire, si sente. È nel cervello che ha sede il centro del respiro e del movimento, della memoria e del pensiero. Un trauma cranico può interrompere le funzioni vitali, fa smettere di battere il cuore. Senza cervello non siamo più niente, come un involucro vuoto. In uno stato vegetativo non siamo più noi, perché perdiamo la nostra personalità. Tutto avviene nella testa, anche il sentimento, come la percezione di sé e del mondo.

Mi ritrovo davanti ad una pianta d'ulivo posata sul palmo di una mano di bianca pietra vicentina. La raccoglie a coppa, come in genere si raccoglie l'acqua. La protegge dagli sguardi, la porge ai passanti, se ne prende cura. È una scultura collocata davanti a Palazzo Chiericati, sede dei musei civici. Simboleggia la pace, la benedizione, l'accoglienza.

È comparsa qualche giorno prima di Pasqua. Attorno all'ulivo dentro una mano si riuniscono spesso i profughi ucraini, tra bandiere gialle e azzurre, canti popolari e preghiere. Siamo salvi ma testa e cuore sono rimasti in Ucraina, raccontano al cronista locale. Qualche giorno fa una diciannovenne ucraina si è gettata dalla finestra di un centro di accoglienza in città. Cinque milioni di ucraini sono raminghi nel mondo, hanno messo qualcosa in una borsa, non hanno perso la vita ma hanno perduto la loro esistenza. Lavoro, amici ed amori, animali ed oggetti, certezze e speranze. Gli altri trentacinque milioni che sono rimasti in patria stanno vivendo un orrore senza fine. C'è da perdere la ragione per questa gente tanta è l'emozione che li devasta per quel che stanno vivendo e per la precarietà della loro condizione.

C'è da emozionarsi anche per noi

Guardo, oltre l'ulivo dentro il palmo della mano, la facciata del museo civico. Mi emoziono perché è lì che hai fatto ballare centinaia di donne con il tumore al seno. Con il tuo “I dance the way I feel”, danzo il modo che sento mio, hai fatto danzare anche me lì dentro, tra le sale in mezzo ai quadri e alle pale secolari, anche se non avevo il tumore addosso. Ma con il cancro ho lavorato per tanti anni, so per empatia cosa significa, anche se innegabilmente è diverso averlo sulla propria pelle come te.

Sei stata dapprima una paziente, una delle tante persone del Quinto Piano alla quale ho somministrato litri di chemioterapia per salvarle, poi sei diventata qualcosa di più significativo, tra un'amica e un'anima bella e libera che è di tutti ma in fondo non è di nessuno. Eri semplicemente tua. “Io cancro, tu Donna” era il tuo blog in cui ti raccontavi, fragile e forte. Tanti oggi ti piangono, emozionandosi, perchè davi sempre coraggio e sorriso alle altre. Per quattordici anni hai resistito al cancro, nel frattempo vivendo ogni attimo come l'ultimo, come se fossi sana.

Ragionevolmente ci dovrebbe essere sempre un limite invalicabile nella relazione di cura, per non lasciarsi coinvolgere troppo emotivamente e non soffrire. Ci deve essere un sano distacco, una equilibrata partecipazione alla sofferenza di qualcuno. Tuttavia con certe persone, che si incontrano nelle corsie d'ospedale, si instaurano talvolta dei legami che avvicinano e che non si concludono con il percorso assistenziale. È un rapporto delicato e rischioso, sempre minato dall'incertezza della malattia e pericoloso per la relazione umana.

Non sei mai stata paziente

Eri soltanto impaziente di avere ancora vita per realizzare le tante idee che ti passavano per la testa e che le cure oncologiche non sempre ti permettevano di fare. Tuttavia di pensare ed emozionare non hai smesso mai. Paziente è un termine anonimo ed impersonale, non sopporto la parola con cui si defiiscono le persone che si ammalano e hanno bisogno di medici ed infermieri. Perché ci deve essere per forza pazienza in un malato, intesa come sopportazione infinita e confortevole rassegnazione?

Vorrei che la smettessimo di chiamare così le persone che curiamo e di cui ci prendiamo cura. Non sono tantomeno clienti ed utenti, come la spersonalizzazione aziendale sanitaria li definisce. Degenti, poi, fa letto e ospiti fa ospizio. Sono semplicemente persone, come me e te. Che eri soltanto Noemi. Un meraviglioso essere emozionale con pensieri intensi creati per donare emozioni. Che scopriva le anime danzanti e faceva danzare le anime con le parole e la fantasia. E poiché sei stata una ballerina leggera, hai voluto andartene senza dir niente a nessuno per non dare peso agli altri.

Noemi è stata un'infermiera senza esserlo veramente. Si è presa cura della salute psicofisica della altre donne del Quinto Piano, oltre che della sua, mentre si prendeva cura del suo corpo malato, disperatamente e serenamente attaccata alla vita. Non so se, come infermiera, riuscirei a fare come lei, con tanta determinazione e un buon sorriso, se il cancro entrasse a far parte della mia vita come ha fatto parte della sua.

Non trovo ragione nel morire. E mi emoziono trovando ragionevolezza nelle parole che mi sono state dette per darmi conforto. Non possiamo raccontarci che ora magari è in un posto migliore o che sta meglio. Perché comunque era una persona attaccata al midollo della vita. Forse c'è solo da piangere, ricordarla ed imparare dalle crepe della sua fragilità che si sono aperte definitivamente. In silenzio. Ora non esiste più ma è vero quando si dice che si rimane nell'altro. Cerchiamo tutti di rimanere memorabili nell'altro per sopravvivere, che ne siamo consapevoli oppure no. Ora c'è soltanto da chiedersi: quale parte di Noemi è rimasta in te? Quali sono i suoi insegnamenti e i ricordi di lei da cui puoi ricavarli? Non rimane nient'altro che questo.

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