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Infermieri

Non siamo eroi, ma ci vuole eroicità

di Monica Vaccaretti

Gli operatori sanitari, si sa, non amano sentirsi chiamare eroi. Né vogliono essere considerati angeli, tantomeno ritengono che la loro professione sia una vocazione. È una professione che non ha riferimenti e connotati religiosi. Ma davvero è un lavoro come un altro? Siamo certamente lavoratori che, con dignità e competenza, fanno bene il loro mestiere, verosimilmente con passione com'è doveroso che sia per qualsiasi persona che sceglie la sua occupazione, in base alla propria attitudine e capacità. Ma siamo soltanto questo?

La sottile differenza tra eroismo ed eroicità

C'è eroicità nel pensare che sia del tutto normale stare a contatto con la sofferenza.

Ammiro tanto la gente che lavora in ospedale. Ci vuole eroicità. E tanta tenerezza con i malati, perché quando si è malati si è capricciosi. L'incontro più bello in ospedale è stato con le persone che lavorano lì.

Sono le parole che Papa Francesco, appena dimesso alla vigilia delle Palme, ha rilasciato ai giornalisti che lo aspettavano davanti al policlinico Gemelli di Roma dove è stato ricoverato per qualche giorno a causa di un'affezione respiratoria.

Anche il Pontefice torna a chiamarci eroi. Ad una prima interpretazione della sua intervista, sembra aggiungere retorica alla tanta retorica farcita di eroismo che ci accompagna dai primi giorni della pandemia. “Eroi” è stato ripetuto tante volte, che adesso non ci crede più nessuno. Nemmeno gli eroi.

Lo hanno detto talmente tanto - nei giorni lontani dai balconi e nei salotti televisivi e in quelli più recenti nelle aule parlamentari e nelle commemorazioni al cimitero di Bergamo – che la parola sembra aver perduto il suo valore.

Gli eroi, così grandemente esaltati, ora sono aggrediti ed umiliati, presi in giro. Essere dimenticati e tornare nell'ombra del nostro servizio forse sarebbe una condizione migliore piuttosto che subire le violenze fisiche e verbali degli utenti, da una parte, ed essere ingannati da false promesse politiche, dall'altra. Scoprirlo sulla Gazzetta Ufficiale, come è capitato nel recente dietrofront del Governo sul vincolo di esclusività, e sui titoli dei giornali che denunciano le continue aggressioni verso i sanitari non è poi un trattamento usuale che si riserva agli eroi.

Gli operatori sanitari, si sa, non amano sentirsi comunque chiamare eroi. Né vogliono essere considerati angeli, tantomeno ritengono che la loro professione sia una vocazione. È una professione che non ha riferimenti e connotati religiosi. Ma davvero è un lavoro come un altro? Siamo certamente lavoratori che, con dignità e competenza, fanno bene il loro mestiere, verosimilmente con passione com'è doveroso che sia per qualsiasi persona che sceglie la sua occupazione, in base alla propria attitudine e capacità.

Ma siamo soltanto questo? Trovo allora nelle parole del Papa, alla vigilia della Settimana Santa, un significato profondo che riconosce il vero senso del nostro essere eroi, al di là della considerazione e riconoscenza sociale e dell'ammirazione perduta. È un intendimento, quello espresso da Papa Bergoglio, che va ben oltre quello che abbiamo fatto in tre anni di emergenza sanitaria da Covid-19.

Con eroi stavolta il Papa non intende soltanto medici, infermieri, Oss e tutte le altre figure sanitarie che compongono questo universo variopinto di divise e profili. Non pensa soltanto ai tecnici di laboratorio e a quelli di radiologia che lo hanno seguito nel suo percorso di cura, né alle ostetriche e ai fisioterapisti che forse ha avuto occasione di salutare durante la sua degenza, facendo un giro nei vari reparti del nosocomio romano.

Egli considera proprio tutti gli ospedalieri, anche l'addetta alle pulizie senza la quale l'attività ospedaliera non sarebbe possibile e l'addetto alla mensa che porta i pasti ad orario. Parla di eroi rivolgendosi a tutti gli uomini e le donne che indistintamente lavorano e vivono in ospedale, che in fondo è un mondo dentro un altro mondo.

L'ospedale può essere considerato, non tanto per le sue dimensioni ma per la moltitudine di persone che vi accede ogni giorno, una piccola città della gioia - e della sofferenza - dentro una città urbanistica più grande. È un sottoinsieme misto di reparti e persone, dentro un insieme sociale più vasto. Un luogo circoscritto e confinato, un microcosmo di fragilità umana spesso lontano da chi sta fuori nella pienezza della propria salute.

Ci si accorge di certi posti e di certe condizioni soltanto quando per necessità vi si entra per qualcosa o ci si immerge per qualcuno. L'ospedale è un edificio brulicante di vita che fa parte della storia della sua città, gli abitanti conoscono la sua posizione ma spesso ci passano davanti con abitudine, senza vederlo. O con la incolpevole noncuranza di chi non sa quello che vi succede dentro. Forse esiste una sottile differenza tra eroismo ed eroicità. L'eroismo è la presenza di un grado eccezionale di coraggio e di abnegazione. È eroico colui che fa qualcosa che è fuori dal comune, di notevole. Di nobile. Che ha un comportamento encomiabile, lodevole.

L'eroicità è una virtù, una qualità bella dell'animo che rende degni di onore e rispetto. È un'attitudine ad essere naturalmente eroi quando il caso presenta certe occasioni. Eroicità è un modo meno comune di descrivere un atto che ha dell'eroico. Si tratta pertanto della qualità durevole dell'eroismo.

Se l'eroismo esprime una superiorità morale che porta a compiere gesti straordinari, non comuni e non quotidiani, tuttavia, non si può essere sempre eroi. L'eroismo, quando si manifesta, è a tempo determinato. Non può perdurare all'infinito.

Si può ripresentare un altro momento che richiede la forza di essere eroi ma comunemente l'eroismo si esaurisce quando cessa la situazione eccezionale che l'ha scatenata. Generalmente, dopo un eroismo, la vita di chi ne è protagonista torna alla sua condizione normale. Rimane la bellezza e la nobiltà del gesto eroico, la sua memoria. Resta l'eroicità. Quella sì che dura, latente come un fuoco sotto la cenere.

Vien da dire che chi lavora in ospedale fa e vede cose che gli altri umani non hanno nemmeno idea, parafrasando la celebre frase nel film di fantascienza Blade Runner (1982) pronunciata dal replicante androide Roy Batty sotto la pioggia battente, nel suo monologo prima di morire. Io ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.

L'eroicità dei professionisti della salute sta nel fatto che hanno un’attitudine a fare quello che fanno, non una tantum ma per una vita lavorativa intera, giorno dopo giorno, persona dopo persona.

L'eroicità salta fuori anche se essi non la vogliono far vedere - sono schivi, i sanitari - ogni volta che pare loro normale essere sempre accanto, o un passo avanti o uno indietro, alla vita e alla morte. Sembra loro naturale far nascere un'anima, salvare una vita rianimandola, tenere un organo in mano e affondare mani in un viscere. Vedere morire qualcuno, nonostante tutto.

E poi ricominciare un'altra volta a curare, cercare di salvare. Riprendere a tagliare con il bisturi, creare anastomosi, suturare. Aggiustare ossa, mettere protesi e rimettere in piedi. Inserire drenaggi, togliere liquidi. Intubare, ventilare. Assistere ogni malanno del corpo e alleviare i disturbi della psiche. Indagare con strumenti e fare diagnosi per dare un nome alle malattie e offrire la cura più adeguata.

C'è eroicità nel pensare che sia del tutto normale stare a contatto con la miseria, la fragilità, la sofferenza e quel capriccio del paziente di cui racconta il Papa, quasi a scusarsi. E riesce loro pure bene, inspiegabilmente. Perché pur vedendo tutto questo scelgono di restarci, di seguire la propria predisposizione, di resistere, di non fare altro che sia considerato più normale dagli altri.

Hanno senso di abnegazione, sacrificio, responsabilità, dovere. Hanno cuore. Non farebbero questa professione senza una buona dose di coraggio per sé stessi e di interesse per la vita delle altre persone. La chiamano empatia. Quella che non si ferma alla passeggera sensazione di solidarietà ma che porta a cercare di capire e ad agire per aiutare.

Credo che l'eroicità dei sanitari sia nel fatto che scendono umilmente ogni santo giorno con la loro umanità al livello dell'umanità variegata delle persone che curano. Credo che l'eroicità di tutti gli addetti ai vari servizi che vengono forniti in ospedale per garantire igiene e comfort durante le degenze sia quella di essere spettatori rispettosi e silenziosi dello spettacolo della vita e della morte che viene proiettato senza fine, dove niente è finzione, recita ed artificio.

Ci vuole coraggio anche a vedere certe realtà crude e nude. Sono lavori umili ma necessari, spesso svolti per bisogno, tuttaviam non si resiste in certi ambienti se non si è eroici a restare. Sento eroicità nei malati, che toccano sulla propria pelle l'eccezionalità della loro condizione di malattia e l'affrontano con coraggio. Tutto l'ospedale è intriso di eroicità, è una sostanza che sta tra i mattoni e cementifica. È il collante che lo tiene in piedi e che unisce chi ci lavora, rendendoli esseri simili.

Ho colto il senso dell'eroicità inteso dal Papa ripensando ad un episodio avvenuto qualche giorno fa, durante una visita medica in un ambulatorio per una decisiva rivalutazione di un caso clinico, in presenza del paziente. Un giovane uomo risvegliatosi incredibilmente dallo stato vegetativo dopo oltre due anni, in seguito ad una rara malattia neurologica, aspettava l'esito del consulto. L'eroicità era dentro una piccola stanza ma nessuno se ne accorgeva. Tanto gli operatori sanitari erano stretti ed affaccendati a ragionare, essa saltava dal neurologo all'infermiera ospedaliera e dall'infermiera della RSA ritornava al dottore che scriveva con cura la relazione, prendendosi a cuore il caso.

L'eroicità si è a un certo punto rivelata nelle parole che, piene di consapevolezza ritrovata, venivano dalla barella dell'autolettiga. È il lavoro più bello. Cosa? Ho detto che il nostro lavoro è il lavoro più bello, ha ripetuto con un sorriso orgoglioso. Si stavano prendendo cura di un infermiere. Il malato era uno di loro e vedeva, in tutta la cura che ci mettevano nel prendersi cura di lui, tutta l'eroicità di cui certe persone normali sono capaci. L'eroicità forse ha un secondo nome. Come scrisse lo scrittore e drammaturgo francese Roman Rolland (Premio Nobel per la letteratura, 1915) vi è un solo eroismo al mondo: vedere il mondo com'è e amarlo.

Quindi colgo eroicità anche nel gesto di porgere al pontefice una bacinella reniforme di acciaio per contenere l'acqua benedetta con la quale ha battezzato la neonata ammalata nella culla, prima di essere dimesso. Mi viene spontaneo immaginare che sia stato un infermiere ad inventarsi che quel recipiente, normalmente usato per posare ferri chirurgici o raccogliere liquidi biologici, potesse essere semplicemente perfetto, come alla fonte battesimale di una parrocchia, per rendere possibile il sacramento.

C'è eroicità nell'abbraccio del pontefice pieno delle lacrime di una madre che ha perduto nella notte la figlia di 5 anni. C'è eroicità nel coraggio di un padre che deve andare avanti vivendo senza la sua creatura, Angelica. Sono piccole storie di grandi anonimi eroi.

Accettiamo la nostra eroicità. Forse non la vediamo come non si vedono certe cose quando ci si è dentro. Ricordiamoci che questa qualità, che ci sembra esagerata quando ce la attribuiscono, è caratteristica potenziale di ogni essere umano. È parte integrante del nostro modo di essere infermiere. È condizione intrinseca per esercitare la nostra professione con nobiltà e darle valore. Essa, unitamente alla tenerezza di cui siamo capaci, è il motivo per il quale siamo degli incontri belli per tutti coloro che entrano in ospedale. Pertanto, la prossima volta che ci chiameranno eroi, non vale offendersi. Vale sorridere, con fierezza. Come il mio amico infermiere. Doppiamente eroe.

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