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Terapia Intensiva

Ossigenoterapia conservativa in insufficienza respiratoria acuta

di Giacomo Sebastiano Canova

Intraospedaliera

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I pazienti con insufficienza respiratoria ipossiemica acuta sono solitamente trattati con ossigeno supplementare. Tuttavia, i benefici e i danni dei diversi target di ossigenazione non sono chiari, anche se si pensa che l’utilizzo di un target inferiore di pressione parziale di ossigeno arterioso (Pao2) comporterebbe una mortalità inferiore rispetto all’utilizzo di un target più alto. Per questo motivo è stato condotto uno studio volto a dirimere la questione.

Obiettivi di ossigenazione per insufficienza respiratoria ipossiemica acuta

I pazienti ricoverati in unità di terapia intensiva con insufficienza respiratoria ipossiemica acuta spesso ricevono ossigeno supplementare con elevata frazione di ossigeno inspirato (FiO2), che si traduce in un’elevata pressione parziale di ossigeno arterioso (PaO2).

Nonostante in alcuni studi clinici tale metodica si sia associata ad un aumento della mortalità, a causa della scarsa evidenza le linee guida di pratica clinica non forniscono raccomandazioni rispetto agli obiettivi di ossigenazione nei pazienti adulti in terapia intensiva.

Per questo motivo alcuni ricercatori hanno condotto lo studio HOT-ICU (Handling Oxygenation Targets in the ICU), al fine di confrontare gli esiti dei pazienti ricoverati in terapia intensiva con insufficienza respiratoria ipossiemica con un target di PaO2 di 60 mmHg rispetto a quelli con una PaO2di 90 mmHg.

Nello studio in questione sono stati sottoposti a screening i pazienti adulti (età ≥ 18 anni) ricoverati in terapia intensiva con insufficienza respiratoria ipossiemica che ricevevano almeno 10 litri di ossigeno al minuto in un sistema aperto o che avevano una FiO2 di almeno 0,50 in un sistema chiuso; con queste soglie di integrazione di ossigeno i ricercatori hanno assunto che in tutti i pazienti il rapporto PaO2/FiO2 sarebbe stato inferiore a 300.

I pazienti sono stati dunque assegnati in modo casuale in un rapporto 1:1 per ricevere l’ossigenoterapia mirata a una PaO2di 60 mm Hg (gruppo a bassa ossigenazione) o una PaO2 di 90 mm Hg (gruppo a maggiore ossigenazione) fino a un massimo di 90 giorni dopo la randomizzazione.

L’outcome primario dello studio era la morte per qualsiasi causa entro 90 giorni dalla randomizzazione, mentre gli outcome secondari erano il numero di pazienti con uno o più eventi avversi gravi (un nuovo episodio di shock, ischemia miocardica, ischemia cerebrale o ischemia intestinale), la percentuale di giorni in cui i pazienti erano vivi senza supporto vitale (assenza di ventilazione meccanica, terapia sostitutiva renale o infusione di vasopressori o inotropi) e la percentuale di giorni in cui i pazienti erano vivi dopo la dimissione dall’ospedale al follow-up di 90 giorni.

In riferimento al campione, dei 2928 pazienti arruolati nello studio, 1462 sono stati assegnati al gruppo con minore ossigenazione e 1466 al gruppo con maggiore ossigenazione. Rispetto ai dati sulla mortalità a 90 giorni, sono stati ottenuti quelli relativi a 2888 pazienti (98,6%), che includevano 1441 pazienti nel gruppo a bassa ossigenazione e 1447 pazienti nel gruppo a maggiore ossigenazione.

Ossigenazione e interventi di terapia intensiva

Durante il periodo di intervento di 90 giorni, le misurazioni della PaO2 erano inferiori nel gruppo a bassa ossigenazione rispetto al gruppo ad alta ossigenazione, così come i corrispondenti valori di SaO2 e FiO2.

Il ricorso a ventilazione meccanica, pronazione, vasodilatatori inalatori, ossigenazione extracorporea, supporto circolatorio, terapia sostitutiva renale e trasfusioni di sangue era simile nei due gruppi.

I dati ottenuti giornalmente alle 8 del mattino non hanno mostrato differenze sostanziali tra i due gruppi per quanto riguarda la pressione positiva di fine espirazione, la pressione inspiratoria di picco o il volume corrente tra i pazienti sottoposti a ventilazione meccanica invasiva o in pressione di fine espirazione tra quelli sottoposti a ventilazione non invasiva.

Outcome

Dopo 90 giorni dalla randomizzazione, 618 pazienti su 1441 (42,9%) nel gruppo a bassa ossigenazione e 613 su 1447 pazienti (42,4%) nel gruppo ad alta ossigenazione erano morti (RR 1,02; IC 95%, 0,94 - 1,11; P = 0,64) e i risultati erano simili nell’analisi dopo l’aggiustamento per i fattori basali. Inoltre, anche l’hazard ratio era simile dopo l’aggiustamento per le variabili di stratificazione.

Il fattore di Bayes era sostanzialmente superiore a 1, supportando la conclusione che non vi fosse alcun effetto dell’intervento e i risultati delle analisi dei sottogruppi erano simili a quelli dell’analisi primaria.

Sempre al follow-up di 90 giorni, la percentuale di giorni in cui i pazienti erano vivi senza che dovessero ricorrere al supporto vitale e la percentuale di giorni in cui i pazienti erano vivi dopo la dimissione dall’ospedale non differivano significativamente tra i due gruppi. Allo stesso modo, il numero di pazienti con uno o più eventi avversi gravi non differiva significativamente.

Conclusioni

I risultati derivanti da questo studio danno peso all’utilità dell’ossigenoterapia conservativa nei pazienti con insufficienza respiratoria ipossiemica acuta. Sebbene non siano emerse differenze negli esiti clinici tra i due gruppi di ossigenazione, i risultati non precludono la possibilità di danni o benefici clinicamente importanti con la strategia di ossigenazione inferiore.

Pertanto, si può affermare come un target di ossigenazione inferiore non comporti una mortalità inferiore a 90 giorni rispetto a un target di ossigenazione più elevato tra i pazienti adulti ricoverati in terapia intensiva con insufficienza respiratoria ipossiemica acuta.

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